Paolino Vitolo, consulente informatico, webmaster, ITC 	consultant, giornalista, scrittore.La memoria e il futuro
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(Intervento al convegno "Foibe - La storia in cammino verso la verità", organizzato dall'I.S.S.E.S. in Napoli, il 28 gennaio 2001.)

Convegno ISSESSignore e signori, buongiorno! Consentitemi innanzitutto di ringraziare gli amici Uccio de Santis e Ciccio Fatica, che hanno voluto darmi l'opportunità di intervenire in questo dibattito. Ne sono onorato e contento, anche se, per la mia età, non ho testimonianze dirette da proporre, ma solo considerazioni derivate dallo studio di una terra e di un periodo storico, che, proprio per la sensazione di ingiustizia, di omissione, di silenzio di cui sono intrisi, mi hanno sempre affascinato. Inoltre, non so se sia un caso, ma la data di oggi è molto appropriata a questo convegno: soltanto ieri (sabato 27 gennaio 2001 - NdR) è stata celebrata la cosiddetta "giornata della memoria", per ricordare - giustamente - le persecuzioni degli ebrei; e durante la quale il presidente Ciampi - ancora giustamente - ha condannato il razzismo e la xenofobia; e l'on. Gasparri di A.N., recatosi - giustamente - a via Tasso, nel quartiere ebraico di Roma, a portare la solidarietà sua e del partito, è stato - ingiustamente - contestato dai soliti idioti, che non hanno ancora capito che il mondo sta andando in tutt'altra direzione. E proprio perché l'Italia, questa povera Italia in cui sopravvive (e anzi vive magnificamente) uno degli ultimi partiti marxisti del mondo, possa mettersi al passo con i tempi, è bene ricordare che in quegli anni bui della guerra e della sconfitta non furono soltanto perseguitati gli ebrei, ma anche migliaia di italiani, nostri confratelli, furono barbaramente trucidati. Le foibe, appunto, che sono il simbolo atroce di quegli eventi, non vanno dimenticate, perché i morti uccisi dai comunisti hanno la stessa dignità delle vittime del nazismo. La pseudo-cultura e il conformismo di sinistra vanno contrastati con tutte le forze, non fosse altro perché ci tengono legati a un passato, che tutto il mondo civile ha ormai superato.

Al precedente convegno dell'ISSES, tenuto in occasione della presentazione del libro di Ciccio Fatica sul Fascismo clandestino nel Sud nel periodo '43-'45, non partecipai personalmente, ma inviai una relazione scritta, che fu pubblicata negli atti del convegno stesso; forse alcuni di voi l'avranno letta. Quella relazione copriva un periodo storico che terminava appunto con la fine della guerra nel maggio del 1945; dopo, nonostante gli sforzi dei patrioti clandestini del Sud, della R.S.I., della X MAS, del CLN e di una parte degli stessi Alleati, avvenne ciò che si era paventato e che si era cercato di impedire: l'Istria, la Venezia Giulia e la stessa Trieste furono occupate dall'esercito iugoslavo comunista, al comando del maresciallo Tito. E i timori per quella occupazione non erano soltanto di tipo militare e politico, ma anche - oserei dire - di tipo umanitario. La pratica dell'infoibamento nel 1945 non era più una novità: già due anni prima, dopo l'armistizio dell'8 settembre, i partigiani di Tito si erano abbandonati agli orrori e alla violenza contro italiani (e anche non italiani) colpevoli soltanto di non essere comunisti. Ed è ben nota, infatti, la parola d'ordine dei titini di quel tempo: "Chi non è con noi è contro di noi". In nome di questa idea furono trucidate migliaia di persone (una stima precisa è ormai impossibile, e lo era anche al momento in cui avvennero i fatti), gettate nelle foibe, voragini naturali del Carso profonde anche due ÷ trecento metri. Qualcuno più fortunato vi fu scaraventato ormai cadavere; i più erano ancora vivi, anche se segnati dalle sevizie e dalle torture, dal filo di ferro che aveva scavato i polsi, e, di questi, non tutti ebbero la fortuna di morire a causa della caduta.

Ma non voglio turbarvi con un racconto dell'orrore alla Stephen King! Mi basterà ricordare l'impressione che ebbi la prima volta che andai alla foiba di Basovizza, alla periferia di Trieste, a soli nove chilometri dal centro. Ero con gli amici Uccio de Santis e Francesco Cuomo; si era fatta ormai sera e decidemmo di impiegare quell'ora che ci separava dalla cena per un pellegrinaggio alla foiba. Saliti sull'altopiano carsico alle spalle della città, grazie alle segnalazioni stradali frequenti e precise, raggiungemmo subito lo spiazzo nudo e spazzato dal vento, al centro del quale un solo alto lampione, simile a un faro, indicava la foiba di Basovizza. Trovammo subito il luogo della voragine, che oggi non si vede più perché è stata coperta con una lastra di cemento; sulla lastra c'erano alcune corone di alloro, residui dell'ultima commemorazione, e alcune lapidi. Di queste, la più grande recava una testimonianza agghiacciante: la profondità della foiba si era ridotta di ben trenta metri nella sola primavera del 1945 a causa della massa dei cadaveri ammucchiati. Considerandone la larghezza media, si trattava di 300 metri cubi di morti, stimabili in 2000 vittime. Non credo che questo orrore richieda altri commenti.

Ma torniamo alla storia ufficiale. Il primo ministro inglese Churchill già nel 1943 aveva capito che il vero pericolo non erano più i nazisti, ormai sull'orlo della capitolazione, ma i comunisti che premevano da oriente. Già prima che la guerra che definirei "calda" finisse, stava per iniziare la guerra fredda. Churchill l'aveva capito subito, ma Roosevelt non volle o non seppe capirlo. Fu a causa di queste indecisioni degli Alleati che si lasciò che l'esercito di occupazione iugoslavo risalisse fino a oltre l'Isonzo, ben più avanti dei territori contestati della Venezia Giulia. Quando, ai primi di maggio del '45 gli Alleati entrarono finalmente a Trieste, la trovarono già occupata dalle truppe iugoslave, che pretesero (e ottennero) di imporre la loro amministrazione. Anche se, per non turbare l'opinione pubblica, si evitò la spudoratezza di esporre ufficialmente la bandiera rossa, in effetti quel governo fu di tipo sovietico: fu imposto il coprifuoco dalle quattro del pomeriggio alle dieci del mattino, furono confiscati i beni dei cittadini, si cercò (ma non ci si riuscì per mancanza di tempo) di mettere fuori corso la valuta italiana, per espropriare automaticamente tutta la popolazione, si impose a chiunque volesse lavorare l'iscrizione a un sindacato unico marxista (chi non era iscritto non poteva essere ingaggiato); fu soppressa tutta la stampa libera e furono istituiti dei giornali di regime; furono chiuse tutte le banche e le compagnie di assicurazione.

Ma ci fu un episodio sanguinoso ed eclatante. Il 5 maggio, il CLN, che da antinazista era per forza di cose diventato antislavo, organizzò una manifestazione filoitaliana. Centinaia di dimostranti inermi sfilarono per le vie della città gridando "Italia, Italia" e sventolando bandiere italiane, riscuotendo la simpatia di chi, essendo rimasto a casa, decise di contribuire alla manifestazione spalancando le finestre ed esponendo a sua volta il tricolore. Ma quando gli italiani raggiunsero le vie del centro, le guardie iugoslave aprirono il fuoco uccidendo alcuni dimostranti e ferendone molti di più. La versione iugoslava parlò di cinque morti e di una decina di feriti; mi sembra ovvio che simili cifre debbano considerarsi approssimate per difetto: succede oggi nelle migliori famiglie. Figuriamoci in quei tempi e con quei personaggi!

Di fronte ad esempi come questi, le stesse truppe di occupazione alleate dovettero ricredersi sugli "alleati" iugoslavi e divennero apertamente filoitaliane. Chi riuscì a scappare, chi riuscì ad avere qualche aiuto, lo ebbe solo grazie agli occupanti inglesi e neozelandesi. Lo stesso maresciallo Alexander, dell'esercito inglese, impegnato nelle trattative con Tito e nonostante queste trattative, non poté fare a meno di paragonare ufficialmente, in un messaggio alle sue truppe, le nefandezze degli iugoslavi a quelle dei nazisti. E ricordò pure che, se si era combattuta quella guerra, lo si era fatto per impedire episodi del genere. Tito si risentì ufficialmente di questo giudizio, con la proverbiale faccia di bronzo dei comunisti, ma ciò non impedì che i massacri continuassero. Parlo naturalmente dei massacri sconosciuti, quelli perpetrati in ogni angolo dell'Istria e anche in Friuli, dove, accanto alle vittime riconosciute, vanno ricordate le vittime senza nome, gli infoibati dimenticati, quelli che non sono più tornati a casa.

Il seguito della storia è ben noto. Scomparvero migliaia di persone (5000, forse 10000 o forse 20000), ma decine di migliaia dovettero fuggire e furono fortunate a riuscirvi, anche se così dovettero abbandonare le loro case e le terre degli avi nelle mani degli slavi. Sappiamo come l'Italia ha saputo trattare questi profughi: come scocciatori, come cittadini di serie B. Ognuno di noi ne conosce o ne ha conosciuto qualcuno: basta ascoltare le loro storie, per non dimenticare.

Chi ebbe la forza e la fortuna di rimanere, almeno a Trieste, dovette soffrire altri otto anni. Con l'Istria ormai persa, restava da difendere solo il cosiddetto Territorio Libero di Trieste, diviso nella zona A, comprendente Trieste e gli immediati sobborghi, sotto amministrazione anglo-americana, e la zona B, corrispondente alla zona costiera a sud della città, sotto amministrazione iugoslava. Di fatto, fin dalla costituzione del Territorio con il trattato di pace del settembre 1947, la zona A poté godere di una preminenza italiana, mentre la zona B fu sistematicamente inglobata di fatto nella Iugoslavia. Si dovette aspettare fino all'ottobre del 1953 perché l'amministrazione anglo-americana restituisse la zona A all'Italia; la cosa non fu indolore e richiese il suo contributo di morti tra i manifestanti filoitaliani. Invece, per quanto riguarda la zona B, l'occupazione iugoslava fu praticamente trasformata in annessione.L'Italia rimase mutilata e, se salvò Trieste, lo dovette all'abile politica internazionale del primo ministro Pella, naturalmente inviso ai comunisti, anche a quelli anagraficamente italiani. Ricordo - e questo è veramente un contributo personale - che, uscendo da scuola a Spoleto, in quel lontano 1953 (allora avevo 8 anni e frequentavo la IV elementare) notai della gente che scriveva sui muri questa frase, allora per me incomprensibile: " Meglio senza Pella che senza pelle". Ne chiesi spiegazione alla maestra, una suora dell'ordine delle Maestre Pie Filippine, ma la pia donna non volle addentrarsi in difficili spiegazioni e rispose evasivamente: "Non vogliono i capi". Intuii che non aveva voluto rispondere, ma solo molto più tardi capii perché.

E' passato tanto tempo e ancora oggi la verità non è stata conquistata. All'inizio non si voleva infastidire il dittatore Tito, divenuto improvvisamente "amico" dopo il suo allontanamento dalla Russia sovietica. Dopo, la cultura marxista (quella con la "c" minuscola, naturalmente) cercò di nascondere la verità e di affogare i ricordi nel suo conformismo beota e colpevole. Ma qualcosa sta cambiando, e cambierà sempre di più. Un primo spiraglio si ebbe a marzo del 1998, quando Fini e Violante (definiti rispettivamente postfascista e postcomunista) si presentarono insieme al popolo di Trieste per iniziare insieme il superamento di un contrasto altrimenti insanabile, per denunciare i propri errori passati (chi non ne ha fatti?) e per uscire dalla inevitabile spirale di odio. L'incontro, come è ovvio, non piacque a molti, di entrambe le parti. A me, se devo essere sincero, invece è piaciuto. Siamo già in un mondo effettivamente "globale", cittadini di un'Europa dove le nazioni sussistono "culturalmente" in quello che domani sarà un unico Stato. Gli odi e i rancori lasciamoli al passato: essi generano solo altro sangue e altro odio. Sono certo che anche i poveri morti delle foibe non ne vogliono più. Facciamo in modo che non siano morti invano.


Paolino Vitolo


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