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(HERMES di luglio 2012.)

Venerdì 6 luglio 2012. Vado in edicola e trovo che i giornali sono tutti vecchi. Mi spiego meglio: la notizia più importante, quella della prima pagina, che parla del decreto del governo sulla cosiddetta spending review è stata ampiamente superata dai telegiornali del mattino. Per prima cosa mi scuso con i lettori per l'uso del termine inglese di cui sopra, al posto del corretto italiano "revisione di spesa" o, ancora meglio, "riduzione di spesa". Prometto d'ora in poi di usare quest'ultima dizione, così come non parlerò mai di spread, ma di "differenziale" o, ancora meglio, "differenza (fra i tassi dei titoli di stato tedeschi e italiani)". Grazie al cielo non sono raffinato e sobrio come il presidente del Consiglio Mario Monti e continuo a preferire la lingua italiana fin quando è possibile, così come devo confessare che mi piacevano di più le belle ragazze di Berlusconi, piuttosto che il loden e l'espressione tetra di Monti, che ultimamente si è mantenuto muto e sobrio persino durante l'inno di Mameli prima della finale Italia-Spagna degli europei; ed infatti abbiamo perso 4 a 0. E, tanto per completare la divagazione, avete notato come lo spread - chiedo scusa il "differenziale" - stamattina fosse al rispettabile valore di 466 punti, il che significa semplicemente che la Germania può piazzare i suoi BUND con l'interesse dell'1,38 % mentre l'Italia è costretta a offrire sui suoi BTP decennali un interesse di 4,66 punti in più, pari al 6,04 %. Eppure si era detto che andando via Berlusconi il differenziale sarebbe sceso automaticamente di almeno 300 punti (parole testuali del grande statista Rocco Buttiglione), cosa che evidentemente non è successa. Vorrei ricordare che durante il governo Berlusconi, esattamente quando il presidente del Consiglio faceva il bunga bunga, il differenziale era sempre stato inferiore ai 400 punti, tranne che negli ultimi dieci giorni prima delle dimissioni di Berlusconi, quando la Banca Centrale Europea, pilotata indovina da chi, aveva smesso di acquistare titoli di Stato italiani, facendo schizzare il differenziale oltre i 500 punti. Secondo il grande Buttiglione, dopo quasi otto mesi di governo sobrio di un presidente, la cui faccia dimostra che il bunga bunga certo non lo fa e forse non l'ha fatto mai, ci saremmo aspettati uno spread di non più di 200 punti. E invece siamo a valori superiori a quelli dei tempi delle donnine: o abbiamo sbagliato la sottrazione o c'è qualcosa che non va.
Ma chiudiamo la lunga divagazione e spieghiamo perché oggi i giornali del mattino sono nati vecchi. Fatto sta che il governo ha dovuto lavorare dalle 17,30 ad oltre l'una di notte per giungere ad una conclusione sul decreto legge sulla riduzione della spesa pubblica. Ieri a tarda sera, quando i giornali sono andati in macchina, sembrava che l'abolizione delle province fosse saltata completamente. Alla fine però il buon senso ha prevalso almeno parzialmente: le province saranno ridotte di circa la metà. È già qualcosa per un'istituzione palesemente inutile, che andrebbe abolita del tutto, specialmente in un momento di crisi in cui si chiedono grandi sacrifici ai soliti noti. Per farla breve i provvedimenti del governo consentiranno risparmi di 26 miliardi di euro nei prossimi tre anni e, cosa di fondamentale importanza, permetteranno di non aumentare l'IVA fino al luglio del 2013.
Mentre compatiamo i poveri ministri per il lavoraccio e le litigate che hanno dovuto fare per quasi otto ore a palazzo Chigi (poverini, con quello che guadagnano!), ci permettiamo di fare alcune osservazioni di carattere generale. Dopo otto mesi di aumenti di tasse, di aumenti di IVA, di blocco delle pensioni, di gente buttata in mezzo alla strada per mancanza di lavoro, ci saremmo aspettati qualche provvedimento un tantino più incisivo. Ci avevano detto che il governo Berlusconi, pur regolarmente eletto da un'ampia maggioranza di cittadini italiani, era stato troppo leggero nel diminuire le tasse, abolendo addirittura l'ICI sulla prima casa, e con questa sua leggerezza ci aveva condotti sull'orlo del baratro. I "mercati" (ma che cosa sono questi mercati?) stavano per punirci come la Grecia, ancora più cattiva di noi, insieme con gli altri Paesi maiali (PIGS = Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, e, raddoppiando la I, anche Italia). Per i lettori che non conoscono l'inglese, la raffinata lingua del nostro sobrio presidente del Consiglio, ricordo che pigs significa appunto maiali. Giusto per approfondire l'argomento filologico, vorrei aggiungere che pig è il maiale vivo, mentre quello morto (venduto ad ariste e costolette dal macellaio) si chiama pork. Quest'ultima parola, esattamente come il nostro porco, deriva dal latino porcus: ciò dimostra che nella perfida Albione, la cui lingua tanto piace a Monti e ai suoi "mercati", c'era una netta distinzione, anche linguistica, tra chi faceva il porcaro (gli indigeni) e chi invece mangiava la carne (i dominatori neolatini normanni). Dico questo perché siamo ben vivi e ci teniamo a rimanere tali, ed anche a rivendicare la nostra superiorità sui barbari.
Tornando a noi per l'ennesima volta, ci dissero che dovevamo fare sacrifici per non cadere nel baratro spalancato sotto di noi, e noi li abbiamo fatti. Non ci hanno dato i quattro pidocchi di rivalutazione biennale delle pensioni; ci hanno rimesso le tasse (INCOSTITUZIONALI) sulla prima casa; hanno rivalutato di un mostruoso 60% le rendite catastali degli immobili; hanno aumentato l'IVA dal 20 al 21%, facendo schizzare in alto TUTTI i prezzi al consumo; hanno inasprito la lotta all'evasione fiscale, costringendo i vecchietti con 1000 euro di pensione ad aprirsi il conto corrente, punendo chi non prendeva lo scontrino del caffè nei bar di Cortina e Portofino; e così via cantando. Abbiamo accettato tutto questo e, da veri buoi quali siamo, abbiamo calato la testa sotto il giogo, in cambio di una fumosa promessa che dopo i sacrifici nostri sarebbero arrivati i tagli delle spese (queste sì spaventosamente mostruose) dell'apparato statale.
Abbiamo aspettato fiduciosi, pagando a testa china, e per prima cosa abbiamo assistito ad una farsa grottesca. C'è stato un momento che è sembrato che gli affamatori del popolo fossero i tassisti e i farmacisti. Oggi a stento ce lo ricordiamo, perché abbiamo la memoria corta, ma i grandi professori che ci governano hanno continuato a dirci con grande sprezzo del ridicolo che liberalizzando le licenze dei taxi e delle farmacie avremmo innescato automaticamente lo sviluppo e la "crescita". Già, la crescita, quella che l'aumento dell'IVA e la riduzione delle retribuzioni hanno praticamente distrutto, mortificando i consumi fino a limiti che sembravano impossibili da raggiungere. E bloccare i consumi significa bloccare il lavoro, cioè aumentare la disoccupazione, la povertà e la recessione. Ci hanno detto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, abbiamo fatto molti debiti e adesso dobbiamo restituirli. Si è usato ed abusato del paragone del buon padre di famiglia che, quando si accorge che si sta spendendo troppo, riduce le spese e usa i suoi risparmi per pagare i debiti. Peccato che il paragone, anche se suggestivo, non regga quando si parla di Stati sovrani. Il fatto è che il debito pubblico di uno Stato è una fonte di ricchezza e di lavoro. Gli Stati veramente sovrani, nella pienezza dei propri poteri, anche quello di battere moneta, spesso usano quest'ultimo sistema per finanziarsi. E non generano inflazione, come si racconta ai bambini con la favoletta del re scialacquone, ma lavoro e sviluppo. Noi e tutti i nostri compagni di sventura, che abbiamo messo volontariamente la testa nel cappio dell'euro, non possiamo più battere moneta. Lo fa per noi la BCE, che poi ci presta i soldi a caro prezzo. Quindi per finanziarci siamo costretti a ricorrere all'emissione di titoli di stato, cioè a chiedere soldi al pubblico in prestito su interesse. Ma poiché il pubblico degli acquirenti è fatto solo in piccola parte di persone normali, ma in gran parte di banche e di investitori, cioè da quelli che costituiscono il famoso "mercato", ecco che qui casca l'asino del "differenziale". Siccome la Germania è ritenuta il paese europeo più affidabile e solvibile, il mercato è disposto ad acquistare i titoli tedeschi, cioè a prestare soldi alla Germania anche q interessi bassissimi (o addirittura nulli). L'Italia è ritenuta meno sicura e meno solvibile (potrebbe addirittura fallire e non restituire i soldi prestati) e quindi è costretta ad offrire un tasso di interesse più alto. Lo Stato italiano ha perciò bisogno di più soldi per pagare i debito che contrae per sostenere la sua spaventosa spesa pubblica. L'Italia, come tutti gli altri Stati, fa i soldi che le servono imponendo le tasse ai cittadini. Questo sistema però funziona fino a un certo punto. Aumentare le tasse significa togliere liquidità dalle tasche dei cittadini, che quindi sono costretti a contrarre i consumi. Ciò provoca recessione e paradossalmente diminuisce il gettito fiscale. L'IVA, che è la tassa che grava indiscriminatamente sui consumi, è il classico esempio di reazione negativa: se aumenta troppo, i consumi diminuiscono e, diminuendo l'imponibile, anche il gettito della tassa diminuisce invece di aumentare. Disgraziatamente ciò è già avvenuto e proprio per questo i professori, sono stati costretti a mettere mano, loro malgrado, alla spesa pubblica, anche se in ritardo e con le inevitabili lamentele e proteste dei vari soggetti colpiti, incapaci di rinunciare ai loro privilegi. E per quanto riguarda lo slittamento dell'aumento dell'IVA a luglio 2013, si tratta dell'ennesima barzelletta. Aumentare l'IVA oggi o tra un anno sarebbe semplicemente una follia, Essa andrebbe invece diminuita e subito. Se lo capisco io da profano, non vedo come possa non capirlo una persona così preparata come il presidente del Consiglio impostoci per disgrazia ricevuta.
Ciononostante i provvedimenti del decreto legge sono palesemente insufficienti. Tornando al paragone del buon padre di famiglia, è come se costui, pur essendosi reso conto dei debiti ed essendosi svenato per onorarli, non faccia nulla o faccia troppo poco per diminuire le spese superflue che quei debiti hanno prodotto (ed altri ne produrranno in futuro). Come dicevo, il paragone non è calzante, perché per gli stati fare debiti è lecito e utile, purché essi servano a finanziare il lavoro e lo sviluppo (opere pubbliche e di utilità sociale) e non, come purtroppo avviene da noi, per alimentare una miriade di parassiti ben pasciuti, il cui unico scopo è quello di mantenere in piedi un perverso meccanismo di potere, che, come un cancro, vive solo per mantenersi e crescere. Da oltre mezzo secolo in Italia il consenso elettorale si acquisisce e si consolida distribuendo prebende, favori, posti di lavoro (posti, NON lavoro). Proprio per questo motivo un governo tecnico, non eletto e quindi senza necessità di consenso elettorale, ha la possibilità di spezzare il circolo vizioso delle spese inutili. Ma purtroppo anche il governo Monti è soggetto ai partiti che ob torto collo lo sostengono e minacciano più o meno velatamente di "staccare la spina", anche se il sobrio professore ha chiaramente detto di non gradire questa espressione. Il risultato finale è che anche questo decreto legge sulla riduzione di spesa, pur partorito tra mille difficoltà, risulta insufficiente. E poiché i tagli più importanti della spesa, come quelli relativi al dimezzamento del numero delle province, saranno operativi solo l'anno prossimo, non siamo neanche sicuri che il provvedimento riesca a sopravvivere alla lunga gestazione.
Abbiamo dovuto subire il governo tecnico sotto la spinta dei mercati e della finanza internazionale che ci stavano sospingendo verso il baratro in cui avevano già gettato la Grecia. Con una logica perlomeno dubbia abbiamo affidato le sorti del nostro paese proprio ad un autorevole rappresentante di quei mercati e di quella finanza che si arricchisce alle spalle dei popoli, ed in particolare di quegli stati come il nostro che hanno volontariamente rinunciato ad una fetta non indifferente della propria sovranità: quella monetaria. I partiti e la politica hanno rinunciato di buon grado alle proprie prerogative, sperando che il governo Monti togliesse le castagne dal fuoco al posto loro. è stato un errore: il baratro è stato evitato dalle banche, dalle assicurazioni, dai ricchi e dai potenti, che se possibile sono diventati ancora più ricchi. Non è stato evitato dalle classi medio-basse che sono state risucchiate nella sacca di povertà. I più sfortunati hanno perso il lavoro, la casa, la speranza. Altri se la sono cavata, perdendo i propri risparmi, rinunciando ai consumi, e non solo a quelli superflui, ma anche a quelli necessari come il cibo. Le fredde statistiche, se lette con una certa attenzione, parlano molto chiaro: le vendite dei beni di prima necessità sono calate di molto, per non parlare dell'abbigliamento, dell'auto, dell'elettronica di consumo e di altri prodotti voluttuari di fascia medio bassa. Di contro sono aumentate le vendite dei generi di lusso, delle barche e delle auto da sogno, degli alberghi e dei ristoranti esclusivi (quelli da 300 euro e più a coperto, per intenderci). Come si era ampiamente capito, il governo dei banchieri si è comportato al contrario di Robin Hood: ha tolto ai poveri per dare ai ricchi. Ma questo non deve stupirci, perché questa è esattamente la logica, anzi la filosofia, della finanza, cioè di quelli che si arricchiscono senza lavorare, anzi togliendo a chi lavora e addirittura distruggendo il lavoro stesso.Se questo è un danno spaventoso ed evidente, ce n'è un altro meno eclatante, più nascosto, ma non meno grave, che questo stato di cose sta provocando: la fine della democrazia e la morte della politica. Per quanto riguarda la prima, già da tempo non avevamo dubbi che una democrazia così falsa e imperfetta come la nostra avesse i giorni contati. Per quanto riguarda la politica, i partiti, che continuano a sguazzare nei loro privilegi come se nulla fosse cambiato, dovrebbero riflettere sul fatto che almeno il 50% degli italiani non sa per chi votare e non ha nessuna voglia di farlo. I partiti e la politica in generale vengono visti come i principali responsabili della situazione di crisi che si è consolidata ed è esplosa negli ultimi anni. La gente sente montare la ribellione e parla sempre di più di rivoluzione. è ovvio che altro è parlare di rivoluzione, altro è farla davvero; non l'hanno fatta neanche in Grecia dove sono alla fame molto più di noi. I popoli non vogliono rivoluzioni, non vogliono guerre; vogliono pace lavoro e stabilità. Questa è una tendenza propria dell'umanità. Ciononostante la situazione attuale deve far riflettere, e non poco. Se la storia è maestra di vita dovremmo ricordare quello che è avvenuto quasi cento anni fa in un'Europa vittima di una crisi simile a quella attuale. Nacquero alcuni regimi totalitari, che non uccisero la democrazia, come potrebbe sembrare a prima vista, poiché essi nacquero proprio perché la democrazia era già morta.
In Italia avemmo il Fascismo. Secondo alcuni fu un bene, per altri un male. Sicuramente esso fu la reazione a uno stato di cose estremo, prodotto dall'arroganza della plutocrazia, proprio come adesso. E l'Italia conobbe un periodo di buon governo e di prosperità e, pur senza questa democrazia da farsa, con il consenso della maggioranza del popolo, che sarebbe durato molto più a lungo del famoso ventennio, se l'Italia fosse riuscita a non farsi coinvolgere in una guerra, che non desiderava e che sentiva estranea ed inutile.
Ovviamente non sappiamo che cosa succederà adesso. Qualcuno prevede il fallimento e l'uscita dall'euro, altri addirittura il fallimento dell'Europa, altri invece il consolidamento dell'unione europea in una sostanza non solo economica, cosa che si è dimostrata fallimentare, ma almeno parzialmente politica. In ogni caso stiamo assistendo all'ennesima battaglia di una guerra lunghissima tra la finanza e il lavoro, tra il potere del denaro e la nobiltà del lavoro, una guerra che qualcuno ha definito in modo molto appropriato la guerra del sangue contro l'oro. E quella che stiamo vivendo ne è una delle battaglie più cruente.


Paolino Vitolo


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