Paolino Vitolo, consulente informatico, webmaster, ITC 	consultant, giornalista, scrittore.Giustizia e politica
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Il problema è affascinante e complesso. Volendo mediare dal mondo della matematica, esso fa parte di quella categoria di equazioni irresolubili, che non ammettono soluzioni univoche. Del resto è spesso così, quando si cerca di imbrigliare in uno schema logico, determinato e matematico il comportamento umano, che è invece, per sua natura, variegato e illogico, mutevole e indeterminato. Ci provò per primo il barone di Montesquieu, uno dei più geniali rappresentanti dell’Illuminismo, che sull’onda dell’entusiasmo delle prime scoperte scientifiche del diciottesimo secolo, dette una prima e insuperata definizione “scientifica” dello Stato di diritto, quello cioè basato sulle leggi e sulla separazione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Nei successivi duecento e più anni dalla splendida intuizione di Montesquieu, la sua rappresentazione dello Stato è rimasta insuperata.
Una rappresentazione, un modello appunto, che per sua natura può solo approssimare la realtà. Nello Stato moderno il potere legislativo è affidato al Parlamento, quello esecutivo al Governo, quello giudiziario alla Magistratura; e il buon funzionamento dello Stato è assicurato quando i tre poteri sono rigorosamente separati. La storia ci insegna e la nostra stessa esperienza ci conferma che, quando una stessa entità dello Stato, titolare di uno dei poteri fondamentali, riesce in qualche modo ad appropriarsi anche di una parte di un altro o, peggio, degli altri due poteri, lo Stato democratico cessa di essere tale e scivola nell’ingiustizia e nella dittatura. Il pericolo è reale e la deriva più facile di quel che possa sembrare, perché Parlamento, Governo e Magistratura non sono entità astratte, ma sono fatte di uomini, fallibili e deboli come tutta l’umanità. E in particolare, mentre in democrazia Parlamento e Governo sono in qualche modo prodotti dal voto popolare e quindi soggetti al consenso, la Magistratura è costituita da professionisti che hanno scelto quella carriera e che, per il semplice fatto di rappresentare uno dei tre poteri fondamentali, godono di privilegi particolari, anzi unici.
C’è però una contropartita a questi privilegi: la Magistratura, proprio perché non può essere soggetta a prevaricazioni da parte degli altri due poteri, proprio perché deve essere indipendente, insomma, non può permettersi di avere colore politico. Se ne avesse, sarebbe il potere giudiziario a prevaricare gli altri due e, anche in questo caso, lo Stato di diritto verrebbe a cadere. Il problema nasce, come sempre, dal fatto che la Magistratura è fatta di magistrati, cioè di uomini, cui non si può impedire di avere delle idee e che purtroppo spesso si dimostrano incapaci di accantonarle, quando esercitano le loro funzioni, e a volte – quel che è peggio - si servono del loro potere per servire la propria parte politica.
Il caso italiano è emblematico: la Sinistra, durante l’ultimo mezzo secolo di suo predominio prima strisciante poi palese, ha cercato di occupare, purtroppo quasi sempre con successo, tutti i posti chiave dello Stato e della nazione in generale; e la magistratura è uno di questi. Le cosiddette “toghe rosse” non sono un’invenzione degli avversari politici, ma una tragica realtà: le persecuzioni politiche, il giustizialismo a senso unico sono ben noti; è inutile ricordare i singoli vergognosi episodi. Inutile anche ricordare i nomi dei magistrati e delle singole procure che si sono particolarmente distinte per l’”impegno politico”, che hanno dimostrato nell’esercizio della loro magistratura (non professione – si badi bene – ma magistratura!), mentre per definizione sarebbero dovuti essere apolitici, anzi al disopra della politica stessa. Inutile e anche pericoloso, perché questi signori, pur avendo calpestato coscientemente le basi eziologiche della loro missione, si sentono e sono effettivamente ancora molto potenti: del resto essi rappresentano il potere giudiziario, quello che vigila sul rispetto delle leggi, e quindi rientrano in pieno nell’antico problema del “quis custodiet custodem?”. Per concludere, volendo riferirsi a un caso di attualità, è chiaro e lapalissiano che il sottosegretario Antonio Taormina aveva ragione da vendere. Pure, egli è stato costretto a dimettersi, tanto sono intoccabili certi personaggi. Siamo però fiduciosi, anzi certi, che il suo sacrificio avrà una contropartita molto importante, che beneficerà tutti gli italiani: la tanto attesa, necessaria, indispensabile riforma della giustizia. Questo governo, che tutti noi abbiamo voluto con schiacciante maggioranza, ha la capacità e la volontà di affrontarla e di portarla a termine.
In sei mesi, ha detto Silvio Berlusconi, che già fu vittima dei corrotti. Buon lavoro, Presidente!


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