Paolino Vitolo, consulente informatico, webmaster, ITC 	consultant, giornalista, scrittore.Crisi del calcio o crisi di civiltà?
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(Il Cerchio - novembre-dicembre 2007)

Paolino Vitolo - estate 2007Mezzo secolo fa divenni tifoso del Napoli. Vivevo a Spoleto, in Umbria, e i compagni di scuola, per farmi arrabbiare, mi dicevano “Vedi Napoli e poi muori… per la puzza che ci trovi”. E invece, quando tornavo a Napoli per l’estate dopo un anno di nostalgia, appena sceso dal treno sentivo il profumo del mare e la mattina mi svegliava il suono dei pianini e il canto dei fruttivendoli.
Fu così che, come tutti i tifosi, decisi che il Napoli doveva vincere sempre, anche se aveva giocato male, e che Jeppson e poi Altafini e poi ancora e soprattutto Maradona dovevano per forza essere dei campioni senza macchia e senza paura, anzi – perché no? – degli dei.
Più tardi, tornato a Napoli, mio padre mi portò qualche volta alla partita e quindi, quando cominciai ad andare all’Università nel nuovo Politecnico proprio vicino allo stadio, decisi di farmi tutti gli anni l’abbonamento ai “distinti”. E posso dire che anche allora si urlava, si intonavano cori offensivi e si esponevano striscioni ingiuriosi e c’era anche chi litigava, chi si picchiava e scavalcava le recinzioni e cercava di entrare senza biglietto e c’erano persino le invasioni di campo, con tanto di cariche della polizia. E quando c’erano le trasferte, i pullman dei tifosi erano il terrore degli autogrill e capitava pure che qualche carrozza dei cosiddetti treni speciali fosse danneggiata, anche se in verità quei treni già alla partenza sembravano composti da carri bestiame.
Insomma anche allora c’erano i tifosi tranquilli, che magari andavano allo stadio con la fidanzata, e quelli più esaltati e violenti, che approfittavano della domenica sportiva o della rara occasione di una gita in una città lontana per sfogare le loro frustrazioni e la loro voglia di rivalsa.
Gli anni passarono e con i nuovi impegni ebbi sempre meno tempo per andare allo stadio, ma quando il Napoli vinse il primo scudetto, nell’ormai lontano 1987, decisi di abbonarmi di nuovo. Durò poco: un solo giorno. Appena entrato nel settore distinti mi accorsi che in vent’anni l’atmosfera era cambiata, e di molto. Sembrava che non si fosse lì per godersi la partita, ma per litigare o cercare a tutti i costi lo scontro con gli avversari o preferibilmente con le forze dell’ordine. Ad ogni buon conto, per fugare ogni mio dubbio, un abile borseggiatore mi tolse di tasca il portafoglio e me lo restituì poco dopo, dicendo di averlo trovato per caso, dopo averlo alleggerito dell’abbonamento. Gli fui comunque grato che mi avesse lasciato i soldi e soprattutto i documenti.
Da allora – e son passati altri vent’anni – sono andato sempre di meno a vedere la partita. Non mi riconoscevo più in quella compagnia di gente becera, arrabbiata, desiderosa solo di imporre le proprie ragioni o - sarebbe meglio dire - i propri torti.
Oggi tutti guardiamo con sconforto ad uno scenario che di sportivo non ha proprio più niente. In verità già da molto tempo si era avuto il dubbio che fra tutti gli sport proprio il calcio fosse quello meno “sportivo”. Oggi più che mai esso è soprattutto un enorme business, dove girano milioni di euro e dove gli introiti degli abbonamenti e dei biglietti di ingresso agli stadi rappresentano una percentuale trascurabile del valore totale. Sarà per questo che in qualche modo la partita di calcio si avvia inesorabilmente ad essere soprattutto uno spettacolo televisivo, mentre gli irriducibili, che non vogliono rinunciare a partecipare dagli spalti degli stadi, sono ridotti al ruolo di comparse o, se preferite, del coro di uno spettacolo da consumare stravaccati sulla poltrona preferita.
Ma ora anche questo modello comincia a vacillare. Le “comparse” e il “coro” non sono più composti da persone “normali” o almeno queste, pur se ancora in maggioranza e proprio perché tranquille e rispettose di un minimo di regole del vivere civile, proprio perché desiderose solo di godersi la partita, non sono più visibili. Saltano agli occhi i facinorosi, i violenti, quelli a cui della partita – diciamolo pure con parole forti – non frega proprio niente. Essi cercano lo scontro con i tifosi avversari, ma in realtà (e lo dimostrano appena se ne presenta l’occasione) sono pronti ad allearsi con questi contro Polizia e Carabinieri, contro le forze dell’ordine, contro i rappresentanti di uno Stato di cui essi non si sentono parte e che vedono come un nemico da combattere, un nemico di classe, un potere estraneo ed opprimente di cui si libererebbero volentieri. Cercare di etichettare questi criminali (preferisco non usare giri di parole) come di destra o di sinistra, come qualche giornalista ha tentato di fare, è semplicemente una follia. Questa è gente senza ideali, senza cultura, senza punti di riferimento. Sono il prodotto ultimo di una società che non ha saputo insegnar loro assolutamente nulla, di quella stessa società che, con il suo buonismo, con il suo garantismo a tutti i costi, ha generato i mostri che per rapinare non esitano ad uccidere i deboli, che non esitano a violentare le donne, che non si fermano davanti a nulla pur di raggiungere i loro miserabili scopi. Miserabili ideali di chi ha imparato che il successo si misura con il denaro meglio se procurato disonestamente e non certo con il duro lavoro, che anzi è visto come un disonore. Sono gli stessi che continuano a offendere la memoria del povero poliziotto Raciti, ucciso fuori allo stadio di Catania e che adesso fingono di commuoversi per la morte di un povero ragazzo, colpevole soltanto di aver partecipato ad uno scontro a suon di ombrelli e coltelli (scusate se è poco, anche se tutti – non so perché – cercano di minimizzare) con tifosi di un’altra squadra in un luogo improbabile, lontano dai campi di calcio, come un’area di servizio autostradale. Ragazzo colpito dalla pallottola sparata da un altro ragazzo più disgraziato di lui, un poliziotto vittima anche lui di questo clima di odio di paura e di intolleranza che permea sempre più la nostra società malata.
E allora, per cercare di correre ai ripari si sospendono i campionati, si vietano le trasferte organizzate e si ordinano partite a porte chiuse (tanto la televisione c’è sempre e questo è quello che conta). Si colpisce il calcio, che anche se non è più uno sport è comunque uno spettacolo capace di emozionare le folle, una specie di “circenses” dell’era contemporanea, e non si vede o si finge di non vedere che il problema è più profondo. E’ un cancro che rode la nostra società malata, minata da sessant’anni di pace a tutti i costi, di benessere a tutti i costi, di molti diritti e pochi doveri a tutti i costi, di salari garantiti, di pensioni anticipate, di vacanze sempre e per forza, di successi facili e a buon mercato, di posti di lavoro sicuri, di ruberie, di furbizie, di veline e grandi fratelli, di carriere travolgenti, di disonestà esibita come un merito di cui vantarsi, di mancanza di ogni freno morale e di ogni dignità. E’ un cancro che non affligge solo l’Italia, ma tutto l’occidente e soprattutto – ci dispiace dirlo – la nostra Europa, un tempo faro di civiltà, che, come una nobile decaduta, non si rende conto che è giunto il momento di rimboccarsi le maniche, se non vuole non dico abbandonare ogni speranza di contare qualcosa nel mondo, ma addirittura scomparire.
Ma le speranze non sono tutte perse, se solo prendiamo coscienza che la crisi del calcio non è solo del calcio, ma è di tutta la nostra società, cioè del nostro modo di affrontare la vita. Quindi, se tutti noi siamo in qualche modo colpevoli, solo noi possiamo trovare la soluzione al problema. Soluzione che è molto semplice: basta ripartire dal nucleo primario della società, dalla famiglia. Insegniamo ai nostri figli e ai nostri nipoti quali sono i veri valori e come è giusto vivere. Molti, la maggioranza, lo stanno già facendo, senza clamori e senza pubblicità. Un tempo questa era chiamata la maggioranza silenziosa, proprio perché non ha bisogno di urlare nulla, ed è proprio a questa maggioranza che dovremo la sopravvivenza della nostra civiltà.
Cosa di cui, da inguaribile ottimista, sono certo.


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