Paolino Vitolo, consulente informatico, webmaster, ITC consultant, giornalista, scrittore. Atlanta Diario di viaggio - marzo 1997
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Indice
  1. Introduzione
  2. Il giorno della partenza
  3. Da Washingtown ad Atlanta
  4. Il primo giorno di lavoro ad Atlanta
  5. Atlanta e dintorni
  6. Il primo giorno della Conferenza
  7. Il secondo giorno della Conferenza
  8. Ritorno in Italia
Indice delle figure
  1. Panorama notturno del centro di Atlanta
  2. Silvana a Georgetown dopo che NON è caduta nella pozzanghera
  3. Il monumento ai caduti del VietNam
  4. Lincoln Memorial
  5. Il monumento ad Abraham Lincoln
  6. Il palazzo del D.A.R., Daughters of American Revolution
  7. Jefferson Memorial sul Tidal Basin
  8. Vista su Pennsylvania Avenue dal Campidoglio
  9. Candidati dal nome italiano in Pennsylvania Avenue
  10. La casa di George Washingtown a Mount Vernon
  11. La tomba di George Washingtown a Mount Vernon
  12. La metropolitana interna dell'aeroporto di Atlanta
  13. Veduta di Atlanta
  14. Stone Mountain
  15. La scultura sul fianco della Stone Mountain
  16. Silvana alla Stone Mountain
 

 

Panorama notturno del centro di Atlanta

Dopo più di due anni, finalmente, l'America mi vuole ancora. Stavolta il viaggio nasce improvviso, imprevisto, non preparato né lungamente e preventivamente sognato e immaginato. Ma proprio per questo ancora più bello, ancora più ... americano!
Una sera di questa precoce primavera del 1997, mentre, secondo il mio solito, mi trattengo in ufficio oltre il normale orario di lavoro, sento squillare nella stanza vicina il telefono di Silvana D'Auria. Nella stanza non c'è nessuno ed il telefono squilla invano per quattro cinque volte e poi smette. Subito dopo suona il mio: è Fabio, il direttore, che mi chiede: - Non c'è Silvana?-.
- È appena andata via - rispondo. - Che cosa volevi dirle?-
- Pensavo di mandarla ad un convegno sulle interfacce uomo-macchina, il CHI 97, ad Atlanta, in Georgia. Ci sono argomenti molto interessanti, tutti di ottimo livello. Solo che dopodomani scade il termine per avere lo sconto del 50% sull'iscrizione, che è comunque un po' cara.-
- Va bene, Fabio, mi sembra un'ottima idea!- rispondo mentre già mi sento rimescolare tutto - domani, appena la vedo, glielo dico e ti faccio chiamare.-
- OK, ci sentiamo. A domani.-
- A domani, buona sera!-
Da quel momento non ho che un pensiero fisso: devo andare anch'io ad Atlanta! A cena sono silenzioso; guardo la televisione, ma senza vederla; a letto non riesco ad addormentarmi. Ma intanto elaboro un piano d'azione e, solo quando alla fine ho la sensazione che riuscirò a farcela, mi rilasso e finalmente riposo.
L'indomani, appena Silvana arriva, la chiamo e le racconto tutto. Le chiedo notizie più dettagliate sul CHI 97 e lei mi gira la nota di Stefania Errore, la ragazza di Bari sempre molto informata su questi eventi internazionali, in cui si parla del convegno e su cui trovo il sito Internet ufficiale del CHI 97. A Silvana piace l'idea, ma preferirebbe non partire da sola: siamo perfettamente allineati. Apro il mio Netscape Navigator e mi collego al sito. Mi documento febbrilmente prima di richiamare Fabio. Quando lo faccio, Silvana sta seduta silenziosa davanti a me. Pochi minuti di perorazione della mia causa e finalmente Fabio mi chiede di inviargli una nota con il preventivo di spesa. Urlo in silenzio dentro di me che ce l'ho fatta!

Conference on Human Factors in Computing Systems

Per caso è il 19 febbraio, il giorno prima del mio compleanno. Penso che non ci sia regalo migliore di questo!
Il mese che segue è banale cronaca di preparazione al viaggio. La difficile ricerca dei posti sull'aereo (siamo sotto Pasqua!), resa ancora più difficile dalla ben apparecchiata impiegata dell'agenzia Aladino, le noiose pratiche per rifare il passaporto, le impreviste difficoltà di ogni tipo, sono tutte cose di cui preferisco fare grazia ai miei volenterosi lettori. Passiamo direttamente alla cronaca del viaggio, che questa volta scrivo da solo, perché Silvana non ha voluto partecipare ad un lavoro a quattro mani, preferendo rimanere semplice spettatrice, anche se, naturalmente ed in quanto protagonista, spettatrice privilegiata.

 

Il giorno della partenza

Venerdì 21 marzo 1997

L'appuntamento è per le 6,30 all'aeroporto di Capodichino. Prenderemo il volo Alitalia delle 7,20 per Milano Linate, poi con il bus andremo all'aeroporto della Malpensa da dove alle 11,50 partiremo con il volo United Airlines per Washington. È piuttosto scomodo, ma è quanto di meglio siamo riusciti a trovare. Per le imminenti vacanze pasquali non c'era posto né sul volo British Napoli-Londra-Atlanta, né su quello Sabena Napoli-Bruxelles-Atlanta. Peccato, perché mi sarebbe piaciuto rivedere Bruxelles dopo tanti anni. Anche a Silvana, che non l'ha mai vista, sarebbe piaciuto. Avevamo anzi pensato di fare proprio lì lo stop-over, mentre invece lo faremo a Washington, il che comunque non è disprezzabile. Inoltre a Washington avremo a disposizione una macchina gratis offerta dalla United, che sono riuscito a farmi dare nonostante l'inefficienza della "apparecchiata" dell'agenzia Aladino.
Mi rendo conto a questo punto di dover aprire una breve parentesi per svelare il mistero di questa "apparecchiata", che ho già nominato per ben due volte. L'"apparecchiata" è un'impiegata dell'agenzia di viaggi Aladino del Centro Direzionale, dove solitamente acquistiamo i nostri biglietti di viaggio. Si tratta di una ragazza bruna, truccata in maniera un po' appariscente, con pantaloni affusolati che mettono in evidenza la coscia lunga, volto perennemente abbronzato ed occhi resi più brillanti e profondi da una sapiente sottolineatura di fard e ombretto (le signore lettrici mi perdonino se ho sbagliato, ma non sono aggiornato su questi termini tecnici). Un giorno, tornando dall'agenzia, mentre mi trovavo nella stanza del gruppo P4, dove lavorano Silvana ed altre due ragazze, avevo espresso ad alta voce un mio giudizio positivo sull'aspetto fisico dell'impiegata dell'Aladino. Prontamente una delle due ragazze, Francesca Dusmet, aveva ironicamente confermato: - Sì, è vero. È ben apparecchiata!-. E quindi da allora questo era diventato il soprannome di Annalisa, l'impiegata dell'agenzia Aladino. Il problema con l'apparecchiata è comunque che la ragazza non ama molto faticare per risolvere i problemi dei clienti, per cui, affidandosi ciecamente a lei, si rischia di rimanere a piedi o almeno di non avere tutti i servizi richiesti.
Nella fattispecie, insieme con i biglietti viaggio dell'United Airlines l'apparecchiata ci aveva consegnato un opuscolo della compagnia in cui si elencavano vari servizi offerti in omaggio ai viaggiatori. Tra questi c'era una macchina a noleggio per un giorno a chilometraggio illimitato, cosa che a Washington ci sarebbe andata proprio a fagiolo. Appresa la notizia, mi ero affrettato a telefonare all'apparecchiata, come indicato sull'opuscolo, per prenotare la macchina, ed ella, mentendo spudoratamente, aveva risposto che questi omaggi si potevano avere solo in caso di disguidi o di perdita dell'aereo. Fortunatamente, telefonando direttamente all'United, avevo ottenuto la macchina, nonostante fossi ormai fuori tempo massimo per prenotarla. Evidentemente il concetto di qualità dell'impiegata di Milano della compagnia aerea, con cui avevo parlato, era un po' diverso da quello dell'apparecchiata.
Ma basta! Torniamo a noi! Abbiamo divagato fin troppo per un personaggio immeritevole di tanta attenzione.
La sera prima della partenza avevo finito di preparare la valigia all'ultimo momento con l'aiuto di mia moglie Cae. In un primo momento avevamo riempito la Samsonite piccola grigia, poi, resici conto che la roba non c'entrava, avevamo dovuto travasare tutto nella Samsonite grande verde. Come spesso mi accade, un buon trenta per cento delle cose si sarebbe poi rivelato inutile.
Pur avendo messo la sveglia alle 5, come da copione, mi sveglio da solo verso le 4,30. Mi preparo, metto le ultime cose in valigia e con un tassì mi reco a Capodichino. Arrivo nell'atrio delle partenze alle 6,25, con cinque minuti di anticipo. Mi guardo intorno: Silvana non c'è, ma in fondo è ancora presto. Invece un attimo dopo la vedo arrivare sorridente dal fondo della sala: mi aveva visto prima di me.
Ci avviamo verso la fila del check-in dove c'è il padre di Silvana che l'ha accompagnata all'aeroporto. Chiacchieriamo del più e del meno e scopriamo di avere una conoscenza in comune: Antonio Amendola, il mio amico di Roccagloriosa, vicino Palinuro, presso il cui frantoio io prendo l'olio, che a sua volta è cliente del padre di Silvana, che vende torchi e presse per le olive.
Il bagaglio parte per Milano, dove purtroppo dovremo subito ritirarlo perché abbiamo il trasferimento alla Malpensa. Salutiamo il padre di Silvana e ci avviamo alla sala d'imbarco. Qui incontro un amico che non vedevo da secoli, Franco Visco, che è anzi quasi mio parente, essendo fratello di mio cognato. Sta andando a Genova. Commento maliziosamente con Silvana che se avessimo voluto partire di nascosto ci avrebbero sorpresi prima ancora di mettere piede sull'aereo.
L'aereo per Milano è puntuale ed il volo fila liscio come l'olio. Io prendo il "Roma", tè e salatini e Silvana "La Repubblica", acqua e biscotti. Anche a Milano c'è il sole come a Napoli. Si tratta certamente di una finzione della città, che vuole ingannare noi poveri napoletani facendoci credere di essere una città normale, con il sole e tutto quanto. Ma noi siamo furbi e non ci caschiamo.
Ritiriamo la mia pesante Samsonite e l'agile borsone di Silvana e ci fiondiamo al bus della Malpensa. L'autista ci fa tornare indietro alla biglietteria, che non avevamo visto, per consegnare il buono dei biglietti, che sono appunto già pagati. Finalmente partiamo, ma il viaggio dura più di un'ora, quanto il percorso Napoli-Milano, a causa dell'intenso traffico della tangenziale.
Alla Malpensa ci sottoponiamo ai soliti riti del controllo passaporto e dell'interrogatorio degli impiegati addetti alla sicurezza, che ci chiedono se abbiamo preparato i bagagli da soli, se qualcuno ci ha dato qualcosa da portare, se abbiamo oggetti che sembrano armi, ecc. ecc. Poi finalmente accediamo al check-in ed i nostri bagagli si imbarcano per la destinazione Washington, dove dovremo ritirarli, dato che abbiamo previsto di fermarci lì per ventiquattr'ore. Avendo finalmente le mani più libere, ne approfittiamo per telefonare a casa per dire che tutto sta andando OK. Poi lentamente saliamo alla sala di imbarco, da dove, dopo un breve attesa, ci infiliamo nella proboscide che ci conduce direttamente nell'aereo con i colori rosso e blu dell'United Airlines. A proposito di proboscide, Silvana la chiama con un nome ancora più strano, cioè "bocchettone". Per dovere di cavalleria ripeto quindi la frase: entriamo nel bocchettone e veniamo risucchiati direttamente nell'aereo. Si tratta di un Boeing 737 con tre file di poltrone, separate da due corridoi paralleli; noi siamo nella fila centrale, non molto lontani dallo schermo del videobeam. Tra gli steward ce ne sono due che parlano italiano; a parte che ci vengono subito presentati tramite altoparlante, lo si capisce dal distintivo col tricolore che portano sulla giacca. In particolare il nostro steward, cioè quello della classe turistica in cui viaggiamo, ha il tipico aspetto dell'italo-americano, secondo l'idea che mi sono fatto frequentando in passato i tavoli di blackjack della NATO di Bagnoli. È piccolo di statura, ma carino (la mia amica e collega IBM Teresa Genovese l'avrebbe soprannominato con la sua arguzia sicula "il pupo sul comò"), ed ha il viso rasato con scrupolo maniacale, praticamente tirato a lucido. Corona il tutto un bel cocco di folti capelli castani. Le hostess purtroppo, secondo una regola che è ormai diventata una costante, sono piuttosto sull'anzianotto e sul bruttino. Comunque sono di una gentilezza estrema e sorridono sempre. Le compatisco pensando alle nove ore di duro lavoro che le aspettano.
Viene diffuso un annuncio bilingue del comandante che avverte che, a causa del traffico aereo sulla Francia, partiremo con mezz'ora di ritardo. Silvana dà chiari segni di impazienza: io le dico che è un po' prestino per cominciarsi a sentire stanchi. In attesa del decollo viene fatto il solito show sulla sicurezza (uscite di emergenza, giubbotti salvagente e maschere di ossigeno) e poi viene distribuito un pomposo menu su cartoncino. Al di là dell'aplomb, si tratta delle solite sinistre pietanze da catering milanese, con secondo piatto a scelta tra vitello e pollo, ma sempre con orrido contorno di pasta asciutta.
Finalmente si parte, esattamente alle 12,30, cioè con quaranta minuti di ritardo. Viene annunciato che arriveremo a Washington alle 15,30, il che non significa che il volo durerà tre ore, ma, considerando la differenza di fuso orario di sei ore, esso sarà di ben 6 + 3 = 9 ore. Faccio sfoggio della mia cultura con Silvana, spiegandole che la rotta dell'aereo non sarà una retta, ma una lossodromica, cioè un arco di cerchio con centro nel centro della terra. È questa infatti la linea più breve che unisce due punti su una sfera e ciò farà in modo che descriveremo una curva verso nord invece di puntare direttamente verso la nostra destinazione. Inoltre saremo rallentati dai venti permanenti che soffiano nell'emisfero boreale da occidente verso oriente: per questo il nostro viaggio durerà tanto, mentre al ritorno ce la caveremo con quasi due ore in meno.
Le hostess portano i pannolini bollenti profumati per rinfrescarci le mani. Appena li apriamo si raffreddano di colpo ed io o l'occasione di continuare a sfoggiare la mia cultura con Silvana, spiegandole che il raffreddamento è dovuto alla rapida evaporazione del profumo. Viene poi servito l'aperitivo; io prendo vino bianco della California con noccioline, Silvana acqua con noccioline. Il vino è un po' troppo mieloso per i miei gusti, anche se fresco e comunque bevibile. Confermo la mia impressione negativa sui vignaioli californiani. Dopo poco arriva finalmente il pranzo; io prendo il vitello, ma rifiuto fieramente di mangiare la pasta: sono appena partito e non sono ancora in crisi di astinenza. Non è un gran che, ma il vino rosso californiano, che è migliore del bianco, aggiusta tutto. Silvana invece mangia il pollo con la pasta e si ostina a bere soltanto acqua. Non so proprio come faccia a digerire tutte quelle orribili cose senza neanche un po' di vino: trascende la mia comprensione.
Dopo mangiato, il tempo di sbaraccare i rifiuti ed incomincia il film. Siamo delusi: si tratta di "Space Jam", una specie di scherzo della Warner Bros, un misto tra un filmetto di campioni di pallacanestro, con Michael Jordan protagonista, ed un cartone animato di Lollo Rompicollo (Bunny) e compagni. Pur di far passare un paio d'ore scarse, decido di vederlo lo stesso. Silvana invece, che è troppo sprofondata nella poltrona, decide che lo spettacolo non vale lo sforzo di allungare il collo per due ore e preferisce ascoltare musica.
Finito il film cerco di mettermi a dormire un po'. È ancora troppo presto per spostare le lancette dell'orologio indietro di sei ore; decido di farlo alle 18, quando potrò tornare direttamente a mezzogiorno, ma fuori c'è sempre il sole alto, come è giusto che sia quando si viaggia appunto insieme col sole. Risvegliandomi dal dormiveglia finalmente mi accorgo che sono già le sei e un quarto; sposto l'orologio e lo fa anche Silvana. Non vediamo l'ora di arrivare, ma mancano ancora più di tre ore; abbiamo da poco superato la metà del viaggio, che sembra un'eternità. Perdiamo un'altra mezz'ora compilando con scrupolosità maniacale il modulo verde del visto di ingresso negli Stati Uniti e quello bianco della dogana.
Passano altre ore e notiamo un certo movimento: il personale sta preparando lo spuntino che era stato promesso poco prima dell'arrivo a Washington. Allora stiamo veramente arrivando! Col panino non prendo più vino, ma semplicemente Ginger Ale, ma Silvana non vuole assaggiare neanche questo.
Nel cielo di Washington c'è qualche nube, ma appena sopra l'aeroporto internazionale Dulles esso diventa completamente sereno. Atterriamo alle 15,30, in perfetto orario. Siamo tutti impazienti di scendere, ma bisogna aspettare che l'aereo rulli sulla pista e che si accosti alla proboscide o, meglio, al bocchettone. Veniamo risucchiati dal bocchettone e riemergiamo in uno stretto cunicolo che corre tutto intorno al terminal dell'aeroporto. Attraverso le pareti a vetro infatti si vedono sulla sinistra le sale di imbarco affollate di passeggeri e sulla destra le piste affollate di aerei, quasi tutti della United Airlines. In alto sulla parete interna sono tracciate due linee continue, una gialla ed una violetta. A Milano l'impiegata del check-in ci aveva raccomandato di stare molto attenti a seguire la linea gialla, una volta sbarcati a Washington. Qui gli avvertimenti sono continui ed ancora più ossessivi: la violet line è riservata ai transiti, cioè a chi si imbarca su un altro aereo senza uscire dall'aeroporto, mentre la yellow line è per chi entra effettivamente in USA. Capiamo che tanta attenzione è dovuta al fatto che solo chi segue la linea gialla farà il controllo passaporto; gli altri dovranno imbarcarsi di nuovo e lo faranno solo alla destinazione finale. Silvana, in qualità di esperta di interfacce utente e di usabilità, arguisce che le raccomandazioni e gli avvisi sono così ossessivi perché un eventuale errore sarebbe molto difficile da riparare.
Comunque, dopo buoni duecento metri di cunicolo percorso praticamente in fila indiana, veniamo spinti inconsapevolmente in una navetta, che, poco dopo il nostro ingresso, viene chiusa, si abbassa sulle ruote e ci conduce al terminale A dell'aeroporto Dulles, dopo un breve tragitto sulle piste. La navetta è piena di gente e non c'è posto per sedersi. Dei gentili piloti della Lufthansa si stringono e ci fanno un po' di spazio: siamo abbastanza stanchi da gradire moltissimo la cortesia. Finalmente la navetta si accosta ad una porta del terminale ed entriamo in un grande atrio con in fondo le gabbie del controllo passaporto. Breve conversazione col poliziotto che vuol sapere perché vengo in America e dove lavoro ed entro alfine negli Stati Uniti; Silvana mi segue a ruota. Il primo passo è fatto, ma ora bisogna andare nella sala successiva a ritirare i bagagli, che fortunatamente appaiono quasi subito sul tappeto mobile. Li carichiamo su un carrello e passiamo senza intoppi anche la dogana. Resta l'ultimo passaggio della gimcana: andare a prendere la macchina a noleggio riservata dall'United presso la Alamo.
Forti delle mie precedenti esperienze, saltiamo a piè pari gli sportelli degli autonoleggi nell'interno dell'aeroporto (peraltro non presidiati) ed usciamo nel piazzale esterno, dove sono già pronti gli shuttle, cioè i pulmini dei vari autonoleggi. Quello della Alamo parte quasi subito e ci porta nell'ultima delle aree riservate, dopo un labirinto di strade, che ci fa temere di poterci perdere. Ma ci rassicuriamo subito pensando che anche al ritorno ci riporterà lo shuttle. Le formalità per avere la macchina sono abbastanza lunghe, ma l'impiegato è gentilissimo e si profonde in spiegazioni su come imboccare la freeway per Washington. Ci viene consegnata una Chevrolet bianca nuova fiammante, anche se al momento non sappiamo ancora che è una Chevrolet (lo sapremo domani, al prossimo capitolo). Ha naturalmente il cambio automatico, ma al volante, il che lo rende abbastanza ostico, e non c'è traccia di freno a mano. Uno strano pedale a sinistra del mio piede sinistro si rivela essere proprio il freno a mano (a piede, direi), ma è necessario chiedere al solito impiegato di colore che controlla i documenti di uscita per scoprirlo.
Finalmente siamo fuori, ma sono occorse ben due ore per sbrigare tutte le formalità. Sono ormai quasi le 18 ed il sole comincia ad abbassarsi. Per i nostri fisici purtroppo è mezzanotte di una giornata in cui ci siamo alzati prima delle 5. Ma qui la sera non è ancora incominciata e dobbiamo ancora trovare l'albergo prenotato dal solerte Alfredo dell'Aladino (l'Holiday Inn Downtown, al posto dello sconosciuto alberghetto a casa del diavolo proposto dall'apparecchiata). Percorriamo le 30 miglia fino a Whashington in circa tre quarti d'ora, in mezzo ad un discreto traffico di gente piuttosto addormentata, rispetto agli standard napoletani.
Quando finalmente entriamo a Washington dal ponte che conduce direttamente in Constitution Avenue, sia Silvana che io siamo commossi. Entrambi siamo già stati qui , anche se in momenti diversi, e ad entrambi la città ha lasciato un bellissimo ricordo. Ci lasciamo alle spalle il Lincoln Memorial e dopo poco superiamo l'obelisco dedicato a George Washington e dopo la Casa Bianca svoltiamo a sinistra per la Quattordicesima. Dopo una breve ricerca individuiamo il nostro albergo. L'ingresso ci delude non poco; diciamo che è piuttosto squallido, ma le camere sono ampie e rispondono ad un discreto standard americano. Mezz'ora per rinfrescarci dopo il lungo viaggio e subito usciamo per la cena. Ho studiato la guida verde del Touring Club e sono in grado di proporre a Silvana un ristorante con cucina americana nella zona di Foggy Bottom in direzione di Georgetown. Silvana accetta di buon grado e continua anzi a farmi da navigatrice come aveva già egregiamente fatto sulla strada dell'aeroporto. Qui però qualcosa non funziona e cominciamo a girare come trottole tra Georgetown ed il centro di Washington. Almeno facciamo senza volerlo uno scrupoloso giro turistico: specialmente la via principale di Georgetown, tutta animata della folla del venerdì sera, ci colpisce favorevolmente e suscita addirittura gli entusiasmi di Silvana. L'unico problema è che il ristorante non si trova, la qual cosa, considerato lo stato piuttosto anormale in cui mi dibatto a causa della stanchezza del lungo viaggio, mi provoca un sottile senso di angoscia. Finalmente, percorsa a passo d'uomo la breve strada in cui dovrebbe trovarsi il locale, mi rendo conto che esso è sicuramente chiuso e forse non c'è più. Cambiamo repentinamente programma; ormai allo stremo delle forze mi affido completamente a Silvana, che sceglie con successo un locale dal nome quasi familiare: "Petra - Mediterranean Restaurant".
Prima di entrare, fingendo disperatamente di avere ancora in pugno la situazione, tergiverso un po' e dirotto Silvana sul ristorante a fianco a quello da lei scelto. Ma mi rendo subito conto che è un orrido pub con nessuno dentro e sono costretto miseramente ad arrendermi ed a fare marcia indietro. Non me ne pentirò: scopro in questa occasione che Silvana, oltre alle altre qualità, ha anche un ottimo fiuto per i ristoranti. Questo è un locale giordano, con ottima cucina araba. Perdonatemi, ma, data la stanchezza, non ricordo il nome dei piatti che abbiamo mangiato. Ricordo solo che erano ottimi: l'appetizer a base di verdure e yogurt ed il main course a base di agnello. Il costo è anche modico, il che non guasta, considerando che Fabio ha promesso di mangiarmi vivo ("Me te magno!") in caso sballiamo con le spese. Infatti si dà giustamente per scontato che sia sempre io a trascinare Silvana in scelte sconsiderate e non il viceversa.
Terminata la cena ci avviamo subito verso l'albergo. In realtà non è tardi: sono solo le dieci e mezza di sera, che corrispondono per noi alle quattro e mezzo del mattino; ormai siamo in piedi da ventiquattr'ore ed è ora di andare a dormire. Mi accorgo di addormentarmi ai semafori rossi, ma nonostante tutto riusciamo ad arrivare felicemente in albergo.
Ci salutiamo con un appuntamento stranamente mattiniero: alle 7 in punto alla reception. Ma in fondo per i nostri ritmi circadiani le sette del mattino non sono altro che le 13 o, come dicono qua, la 1 pm, un'ora veramente un po' tarda per uscire. Ma basta! Non è più tempo di calcoli e di ragionamenti: non appena mi butto sul letto crollo di colpo in un sonno senza sogni.

Da Washington ad Atlanta

Sabato 22 marzo 1997

La prima notte in America è appena passata con una bella serie di risvegli anticipati, il cui orario è documentato perfettamente dall'immancabile radiosveglia luminosa sul comodino. Una prima volta mi sono svegliato per un attimo in un'ora imprecisata, perché non ho guardato la radiosveglia, ma mi sono subito riaddormentato. poi mi sono svegliato alle 3 (cioè alle 9 italiane), alle 5 (cioè alle 11) ed infine alle 6 mi sono alzato. A Silvana è andata più o meno allo stesso modo.
Scendiamo a colazione per il nostro primo breakfast all'americana. Prendiamo uova strapazzate, salsicce, yogurt, frutta, succo di pompelmo (io) e di arancia (Silvana), poi paghiamo l'albergo, ritiriamo la macchina al garage, carichiamo le valigie e ci mettiamo a girare per Washington. Abbiamo tempo fino al pomeriggio, perché l'aereo per Atlanta parte alle 16,55. Tutto è stato calcolato per sfruttare al massimo il tempo disponibile: l'abbondante prima colazione ci eviterà di doverci fermare a mangiare ed il bagaglio già in macchina ci libererà dall'obbligo di tornare in albergo. Tanto riteniamo che le probabilità che ci rubino le valigie a Washington siano piuttosto scarse.
Durante il viaggio del giorno precedente avevo vaneggiato di una visita ad un museo. Silvana mi dice che non ne ha voglia, ma non ci sono problemi: anch'io ho cambiato idea. Inoltre poiché da ieri sera, dopo la scelta del ristorante, mi sento in condizione di inferiorità psicologica, lascio decidere a lei anche la prima meta della giornata: andremo immediatamente a Georgetown, che è il posto di Washington che piace di più a Silvana. Troviamo un parcheggio a pagamento in uno spiazzo dietro una casa e lasciamo la macchina. Vicino all'ingresso c'è una specie di edicola dove dovrebbe stazionare il custode, ma è chiusa e non si vede nessuno nei paraggi. Le tariffe sembrano piuttosto salate (cinque dollari per la prima ora) e quindi, nonostante la preoccupazione delle valigie, ci rallegriamo che non ci sia nessuno. Ci avviamo per il corso principale di Georgetown, che ha un aspetto da cittadina inglese, con belle case in stile vittoriano. Nelle vie laterali tutte le case hanno davanti la classica scaletta esterna, che abbiamo visto in tanti film, e tutte sono immerse in piccoli ma splendidi giardini fioriti. Le strade, che la sera prima erano piene di animazione, stamattina sono invece praticamente deserte, se si escludono alcuni operai che stanno facendo uno scavo. Silvana è delusa, perciò scattiamo qualche foto e decidiamo di tornare. A proposito di foto prendiamo una decisione, l'uno scatterà la foto all'altra con la macchina dell'altra, in modo che ognuno alla fine abbia le foto di se stesso. Faremo così per tutto il viaggio; unica eccezione: una mia foto di Silvana a Georgetown, scattata prima che si promulgasse la regola e scattata per di più mentre Silvana scavalcava audacemente una pozzanghera, con la mia segreta speranza di vederla scivolare. Non tanto segreta comunque, se le dico, fotografandola: - Aspetta, Silvana! Ti faccio una foto mentre cadi nella pozzanghera!- Silvana a Georgetown dopo che NON è caduta nella pozzanghera

Torniamo al parcheggio dopo appena un quarto d'ora di assenza e notiamo con disappunto che il custode è arrivato (forse prima era troppo presto, visto che non sono ancora le nove) e c'è un signore in giacca bianco avorio, che sembra il padrone del parcheggio. Con una discreta faccia tosta gli chiediamo se possiamo andarcene senza pagare, visto che abbiamo parcheggiato per soli quindici minuti. Il signore in giacca risponde che non ci sono problemi e ci chiede se la nostra macchina è la Chevrolet. Io, che ancora ignoro la marca della nostra macchina, rispondo: - No, our car is the white one! - , facendo così la figura dello scemo (ma non è la prima né l'ultima volta). Però mi riprendo subito e, calcando il mio accento italiano per chiarire, in caso ce ne fosse bisogno, che sono un turista, gli chiedo: - Oh, is this a Chevrolet? It's the first time I see this model of car - . Il signore, gentilissimo, annuisce sorridendo. Ce ne andiamo contenti: adesso sappiamo una cosa in più, ed inoltre la sappiamo gratis.
Dopo altre foto alle case fiorite, ritorniamo verso il centro perché decido (e qui finalmente riprendo le redini) di visitare il Vietnam Memorial, che Silvana non ha ancora visto. Dopo oculata ricerca riusciamo a parcheggiare in Costitution Avenue in un punto piuttosto avanti rispetto al monumento, ma dove non c'è divieto di sosta. Poi torniamo a piedi nei giardinetti che costeggiano il Reflecting Pool (bacino riflettente) del Lincoln Memorial. Dei cartelli avvertono che il Reflecting Pool è stato fatto a somiglianza delle fontane del Taj Mahal o di Versailles, per rispecchiare l'immagine del monumento ad Abramo Lincoln. Sorridiamo dell'ingenuità degli americani, che, giustamente, avendo copiato una cosa, dicono anche a quale originale si sono ispirati. Il monumento ai caduti del VietNam

Appare in lontananza il lungo muro nero di granito lucidato su cui sono incisi in caratteri d'oro i nomi dei più di 58.000 caduti della guerra del Vietnam. Sono in ordine cronologico, cioè ordinati per data di morte; mi commuove l'ultimo nome, un poveraccio che probabilmente, se la guerra fosse finita un'ora prima, sarebbe ancora tra noi. Vicino al muro passano turisti, ma soprattutto sono gli americani che si soffermano, che depongono fiori e corone, che ricalcano nomi su fogli di carta annerendoli con la matita. Ci sono anziani con gli occhi ancora umidi, donne più giovani, bambini. Mostro a Silvana uno dei libroni disponibili all'inizio del percorso: contengono tutti i nomi, ma questa volta in ordine alfabetico, ciascuno con il riferimento del pannello del muro su cui è scolpito. Qui c'è anche la data ed il luogo di nascita, nonché la data di morte. Scelgo un nome a caso: un caporale di Seattle (stato di Washington) nato ad aprile del '45, cioè più giovane di me di due mesi, e morto in Vietnam a maggio del '67, poco dopo il suo ventiduesimo compleanno. Un solo nome fa molta più impressione di 58.000.
Ci spingiamo fino al Lincoln Memorial, uno dei quattro vertici monumentali previsti dal disegno dell'architetto militare francese maggiore Pierre Charles L'Enfant, cui fu commissionato nel 1791 il progetto della capitale degli Stati Uniti. Gli altri tre vertici sono il Campidoglio ad est, diametralmente opposto al Lincoln Memorial, la Casa Bianca a nord ed opposto a questa a sud il Jefferson Memorial. Lincoln Memorial

All'incrocio delle due rette dovrebbe trovarsi il Washington Memorial, cioè l'enorme obelisco dedicato al primo presidente USA (che nel progetto di L'Enfant doveva essere una statua equestre), ma in effetti, a causa di cedimenti nel terreno riscontrati all'inizio della costruzione nel 1848, esso fu eretto in un punto spostato di alcuni metri verso sud est. Entriamo ai piedi dell'enorme statua di Abraham Lincoln seduto meditabondo su una poltrona e ci divertiamo a tradurre le auliche iscrizioni sui muri, dimenticandole subito dopo. Il monumento ad Abraham Lincoln

Terminata la visita, ritorniamo verso la macchina, ma prima decidiamo di spingerci fino alla Casa Bianca. Non posso fare a meno di raccontare per l'ennesima volta a Silvana di come riuscii ad entrare senza biglietto nella Casa Bianca, in occasione della mia visita precedente a Washington D.C. Era sabato anche allora ed era l'ultimo giorno utile per me per visitare la casa del Presidente della mia nazione preferita. La domenica ed il lunedì infatti le visite sono sospese ed io sarei ritornato in Italia proprio l'indomani, cioè domenica. La visita è gratuita, ma vengono comunque distribuiti dei biglietti di quattro colori diversi, per distinguere i quattro turni di visita da mezz'ora ciascuno dalle 9 alle 11 del mattino. Quando arrivai, alle 9 meno 10, tutti i biglietti per tutti e quattro i turni erano finiti, e non c'era nulla da fare. Decisi però che era inconcepibile che un napoletano non riuscisse a trovare il sistema per imbrogliare quei sempliciotti di americani: riuscii ad entrare infatti, aggregandomi pur senza biglietto al gregge del primo turno e, poiché fortuna audaces adjuvat, la persona inconsapevole a cui mi ero attaccato, brandiva fieramente il biglietto del colore sbagliato, cioè del turno successivo. Lui fu miseramente bloccato, mentre invece io entrai senza biglietto: la sua era una misera trasgressione sicuramente involontaria, la mia era una trasgressione grave ed inconcepibile per il poliziotto americano che controllava i biglietti alla porta. Anche perché, a conti fatti, non vedo chi possa desiderare tanto ardentemente di entrare alla Casa Bianca da rischiare una figuraccia, considerando che essa è in fin dei conti soltanto una bella casa con bei mobili in stile, ma niente di lontanamente paragonabile ad esempio agli appartamenti del Palazzo Reale di Napoli.
Questa volta, molto più saggiamente, ci limitiamo a fotografare la Casa Bianca da lontano, attraverso i cancelli che delimitano il giardino a sud. Il prato è splendido, perché in questa stagione tutti gli alberi sono fioriti. Mentre torniamo sui nostri passi verso la macchina espongo a Silvana un altro caso che dimostra la fondatezza della mia teoria sulla trasgressione grave o, come io la chiamo, della doppia trasgressione, che in America ha molta più probabilità di riuscire della trasgressione semplice. La storia è semplicissima: giunto una domenica nel campus dell'Università di California a Berkeley, trovai che in tale giorno è praticamente impossibile parcheggiare. Ovunque minacce di multe salate e di carri attrezzi; tutte cose che da non sottovalutare, perché certe cose, se le scrivono, sono vere. Ve lo dico io che ho ricevuto (e pagato) una multa per divieto di sosta inviatami dal municipio di Santa Cruz (California) e recapitatami a casa in Italia in tempo più che utile. Cosa fare per risolvere il problema? Semplicissimo! Basta ricorrere alla doppia trasgressione: parcheggiai infatti in una zona riservata ai professori dell'Università, dove non c'erano infatti cartelli minacciosi. Del resto in quel momento mi sentivo anch'io professore e perciò, giustamente, la feci franca.
Ripercorriamo il prato dell'Ellisse ammirando alcuni palazzotti neoclassici di un bianco abbagliante nel sole di una giornata divenuta improvvisamente limpidissima per un vento teso e fresco che si è alzato da poco. I prati sotto i palazzi sono una festa di colori, sia per i fiori accuratamente disposti nelle aiuole, che per i petali delle magnolie strappati dal vento. Davanti ad ogni palazzo garriscono delle allegre bandiere a stelle e strisce; solo una bandiera è diversa: ha due strisce blu verticali separate da una striscia bianca centrale. Mi incuriosisce perché non ricordo di averla mai vista e mi chiedo a quale nazione possa appartenere. Mi avvicino al palazzo e leggo la sigla D.A.R. Che nazione è mai questa? La risposta è subito trovata: DAR significa Daughters of American Revolution, Figlie della Rivoluzione Americana. Silvana mi porge su un piatto d'argento la mia solita malignità maschilista estemporanea, stuzzicandomi con questa frase: - Vedi come sono organizzate? è il quartier generale del nemico! - Il palazzo del D.A.R., Daughters of American Revolution

Comunque non raccolgo l'invito, perché in questo momento sono in uno stato d'animo di particolare magnanimità. Scherzi a parte, non posso non provare un moto di simpatia per questa nazione così giovane e tanto entusiasta da ricercare ogni momento le proprie radici ancora tenere e fresche, non incartapecorite da secoli di guerre, prepotenze, delitti, scoperte, filosofia, millanterie, pensiero, letteratura, ingiustizie, come quelle della nostra cara decrepita fatiscente Europa.
Vicino al punto dove avevamo parcheggiato la macchina, all'angolo tra Constitution Avenue e The Ellipse, c'è una piccola scura casa di pietra grigia, di aspetto antico, che contrasta visibilmente con il biancore dei palazzi vicini. Nessuno si ferma a guardarla, anche se in effetti sembra l'unica cosa veramente antica nei paraggi: evidentemente gli americani cercano solo la scenografia di un surrogato di Roma imperiale. Noi invece ci avviciniamo e ci soffermiamo a leggere il cartello esplicativo: si tratta del terminale del canale navigabile Ohio-Potomac che servì a trasportare le chiatte del materiale che servì per costruire la capitale nei brevi dieci anni dal 1790 al 1800. E pensare che l'avevo scambiata per la casa di qualche eroe della rivoluzione!
Riprendiamo la macchina (senza multe, grazie a Dio!) e c'è già un altro automobilista che si apposta dietro di noi per recuperare il nostro posto in zona consentita. Il programma che mi sono fatto al mattino prevede ora la visita del Jefferson Memorial, che è il quarto vertice del centro monumentale della città, che né Silvana né io abbiamo mai visto. La guida del Touring recita che in un breve periodo di dieci giorni, dalla fine di marzo all'inizio di aprile, questo monumento è particolarmente suggestivo per l'imponente fioritura dei ciliegi nani giapponesi che lo contornano; sono particolarmente soddisfatto di aver centrato in pieno il periodo. Il Jefferson Memorial si rispecchia anch'esso in uno specchio d'acqua, il Tidal Basin,che in questo momento in verità non sembra molto propenso a fare da specchio, tutto agitato com'è dal vento ormai impetuoso che lo ricopre di schiumette bianche. Mentre siamo fermi ad un semaforo Silvana riesce a scattare una bella foto. Jefferson Memorial sul Tidal Basin

Arriviamo finalmente dietro al monumento e sorge subito il problema del parcheggio, che è piccolo e tutto pieno delle macchine degli americani che dedicano il sabato alle visite dei loro pochi monumenti "ufficiali". Dopo un paio di giri decido di essere un po' più napoletano e parcheggio fuori dalle strisce e in curva. Silvana ha sete (Ci credo! Dopo quella colazione a base di salsicce!) e prendiamo due bottigliette di acqua minerale non gasata ad un chiosco gestito da una coppia di immancabili negri. Ne beviamo una e l'altra Silvana la nasconde nella borsa perché, come ovunque del resto, un cartello all'ingresso del Jefferson Memorial avverte "No food no drink inside". Il monumento comunque non è niente di speciale: si tratta di una rotonda in stile palladiano, costruita ad immagine della villa di Jefferson a Monticello (un posto qui vicino) che ricalcava appunto la famosa Rotonda del Palladio presso Vicenza. All'interno c'è la statua in bronzo dorato dell'avvocato Jefferson, secondo presidente degli Stati Uniti. A Silvana non piace e perciò non vuole nessuna fotografia; io malignamente insinuo che il vero motivo è che è troppo spettinata per farsi fotografare.
Comunque, nonostante l'ostentata nonchalance, ho una certa preoccupazione per la macchina parcheggiata alla napoletana, per cui subito ritorniamo sui nostri passi e ce ne andiamo. Per fortuna la polizia non è passata e non abbiamo preso multe. La prossima tappa è il Campidoglio; mentre ci avviamo, non so perché il discorso cade per l'ennesima volta negli ultimi due mesi sul film " Proposta indecente", forse perché pensiamo che in quei bei posti potremmo anche incontrare Robert Redford. A questo punto faccio la prima gaffe del viaggio (e penso anche l'ultima), perché dico allegramente a Silvana: - Se incontrassimo Robert Redford, dovresti pagare tu un milione di dollari! -
Con la classica prontezza di riflessi femminile, che non finirà mai di stupirmi, Silvana risponde con risentita ironia: - Grazie, Paolino! Grazie! -
Io capisco al volo e cerco di rimediare buttandola sul generale: - Ma perché devono essere sempre gli uomini a pagare, se anche a voi piace? -
Molto elegantemente Silvana risponde: - Ma è chiaro! Per pura cavalleria! -
Tiro un sospiro di sollievo ed apprezzo moltissimo la risposta di Silvana, che ha avuto pietà di me ed ha voluto lanciarmi un insperato salvagente.

Vista su Pennsylvania Avenue dalla terazza del Campidoglio

Arriviamo al Campidoglio. Da queste parti c'è anche la Libreria del Congresso, dove Silvana venne per lavoro un paio d'anni fa. Parcheggiamo nel primo posto consentito piuttosto lontano e poi torniamo verso il monumento, luminosissimo e bianco nel cielo di un azzurro profondo. Il vento è ora così forte che stentiamo a camminare. Davanti all'ingresso del Campidoglio c'è una fila enorme di gente che aspetta per comprare il biglietto per visitarlo. Decidiamo a priori che non ci interessa; per me in particolare è una decisione facile: gli dedicai un'intera mattinata tre anni fa. Scattiamo alcune foto dall'alto della terrazza sulla prospettiva del Mall e di Pennsilvania Avenue, in fondo alla quale si intravede la Casa Bianca; sono fiero delle mie nuove lentine a contatto morbide che mi consentono di apprezzare tutti i particolari. Torniamo sui nostri passi; vicino all'auto noto un cartello elettorale di un candidato di nome Capozzi. Nome piuttosto familiare: merita una fotografia, anche perché il rollino di stampe che ho in macchina sta per finire e preferisco caricarla prima di ripartire. Candidati dal nome italiano in Pensylvania Avenue.

è ormai quasi mezzogiorno e mi sembra giunto il momento di andare a visitare la villa di George Washington a Mount Vernon; Silvana è d'accordo. Lasciamo Washington ed imbocchiamo la highway n.1 verso sud. Superiamo il bivio per Arlington e per il Pentagono, che ci lasciamo sulla destra, e quello per il National Airport, sulla sinistra, e ci addentriamo in una periferia improvvisamente spoglia e squallida, nonostante il sole ormai tiepido. Raggiungiamo la cittadina di Alexandria, antico porto mercantile sul Potomac, tutta in perfetto stile virginiano, ma l'attraversiamo senza fermarci: purtroppo il tempo è tiranno e, con i biglietti aerei a tariffa ridotta, non possiamo permetterci scherzi di alcun genere. Ci allontaniamo sempre di più e cominciamo un po' a preoccuparci, a causa dell'usanza tutta americana di mettere i cartelli indicatori solo all'ultimo momento: se non si è proprio sul bivio bisogna avere assolutamente una carta con i numeri delle strade, che costituiscono l'unico punto di riferimento. Comunque, grazie all'abituale prontezza di riflessi, imbrocchiamo al primo colpo il bivio per la George Washington Historical Area.
Il paesaggio cambia drasticamente: la strada è più stretta, cioè di dimensioni più "europee", e corre in mezzo ad una splendida vegetazione fiorita per la precoce primavera; in mezzo ai prati ben curati sorgono abitazioni monofamiliari da favola. Si tratta di ville, palazzotti in stile "Via col vento", chalet, la maggior parte in legno dipinto di bianco e con la classica cassetta delle lettere sulla strada, in perfetto stile Paperino. Dalla via principale si dipartono vie e viottoli piacevolmente tortuosi che si addentrano nel bosco per raggiungere altre splendide case che si intravedono in lontananza. Siamo evidentemente nella zona residenziale dove abitano le persone più fortunate che vanno a Washington solo per lavoro o per affari.
L'unico problema è che, cammina cammina, non riusciamo a trovare questa benedetto Mount Vernon. Dopo molti chilometri vediamo una specie di radura con un piccolo centro commerciale ed un benzinaio e ci decidiamo a chiedere informazioni ad un ragazzo biondo addetto alla pompa. Interviene anche quella che sembra essere la mamma per aiutarlo nella risposta, ma purtroppo con scarsi risultati, visto che il loro inglese è pressoché incomprensibile. Purtroppo l'incomunicabilità deve essere abbastanza reciproca, se, essendo riusciti a raggiungere grazie al nostro acume il posto così faticosamente indicato, ci rendiamo conto che non si tratta della villa di Washington, ma del mulino dove egli andava a macinare il grano prodotto nei suoi terreni. Comunque il mulino è sulla via del ritorno, che percorriamo lentamente cercando sempre Mount Vernon, che, secondo la guida del Touring, deve stare sulla riva destra del Potomac, cioè adesso alla nostra sinistra. Ad un certo punto deviamo in una strada laterale per fotografare alcune ville e miracolosamente vediamo delle persone che lavorano in un giardino, uniche anime vive in quello splendido deserto. Sembrano persone piuttosto civili; infatti quando chiediamo lumi otteniamo una risposta chiara e precisa: al secondo semaforo girare a destra. Così facciamo e ci troviamo subito di fronte all'ingresso dell'area storica di Mount Vernon, perfettamente indicata dagli immancabili pullman turistici e dalle colorate frotte di americani in gita.
Mentre facciamo l'abituale coda davanti alla biglietteria, noto con orrore un cartello che avverte che la coda per entrare nella casa di Giorgio Washington è di venti minuti. Adesso è l'una; facciamo un rapido calcolo e stabiliamo che vale la pena entrare. Ci avviamo di gran carriera nell'ingresso, superando gruppi di persone che ci precedono, poi entriamo nel prato che sta sul retro della villa e qui ci blocchiamo nella fatidica fila. Il mio cervello lavora febbrilmente per trovare un sistema per fare fessi questi ligi americani; propongo a Silvana una serie di trucchi e trasgressioni: entrare dall'uscita e visitare la villa a ritroso, fingere di visitare le scuderie e poi sgattaiolare nella villa, superare le persone negli attimi di distrazione, ecc. Purtroppo Silvana boccia miseramente tutte le mie trovate e sono costretto a rimanere in coda, io che ero riuscito a visitare la Casa Bianca entrando senza biglietto addirittura al primo turno! Ecco l'esempio pratico di come una donna può tarparti le ali e come può configurarsi come una pesante palla al piede! La casa di George Washingtown a Mount Vernon

Fortunatamente l'attesa è più breve del previsto. Entriamo prima in una dependence e poi nella villa vera e propria, che è ben arredata, anche se piuttosto spartana, come la casa di campagna di una persona seria senza tanti fronzoli. Il pavimento è di legno segato in lunghe tavole, i muri, pure di legno, sono trattati per apparire di pietra e sono dipinti all'interno in colori piuttosto vivaci; pochi quadri, semplici e a volte ingenui, pochi soprammobili. Da ogni cosa emana un senso di pace, che nemmeno il folto gregge di visitatori riesce a dissipare: immagino Washington che trascorreva in questo ritiro gli ultimi anni della sua vita, in compagnia della moglie Martha, occupandosi solo della sua terra, delle sue coltivazioni sperimentali, dei suoi allevamenti e dei suoi cavalli. E mi commuovo.

Dopo le prime stanze si esce sul portico anteriore della casa che domina dall'alto sulla riva scoscesa del Potomac. Qui, poiché si sta facendo tardi, decidiamo di uscire dalla visita guidata e rinunciamo a visitare il piano superiore della villa. Dal portico scendiamo nel prato antistante e ci avviamo lentamente verso il fiume. Volgendoci indietro possiamo ammirare la facciata della casa, che è bianca con semplici colonne di legno, come una tipica costruzione del sud. La guida del Touring infatti dice che è in stile georgiano, quello di "Via col vento", per intenderci.
Illuminata dai raggi del sole che cominciano ad inclinarsi e ad addolcirsi nel presagio del tramonto ancora lontano, cullata dal dolce stormire delle querce agitate dalla brezza fresca, la vista della casa sembra toccare anche Silvana, che mormora: - Pensa a Giorgio Washington, quando si ritirò qua a pensare a tutto ciò che aveva fatto! Alla sua America! -
Restiamo un po' in silenzio, ma poi ci scuotiamo: non c'è molto tempo. Scendiamo di buon passo verso il fiume, perché voglio vedere il molo. Lungo la strada un cartello indica la direzione della Old Tomb. Deviamo dai nostri passi per andarla a vedere, ma si tratta di una tomba estremamente dimessa, quasi povera. è poco più di un buco sulla scarpata, chiuso con uno sportello di legno scuro; il primo presidente degli Stati Uniti fu seppellito qui, praticamente nel giardino di casa, prima che gli costruissero la tomba monumentale che vedremo più avanti. Siamo un po' delusi, ma in fondo la tomba è spartana come tutto il resto della casa: era gente che badava al sodo, e in fondo gli americani anche oggi sono meno preda di fronzoli ed orpelli rispetto a noi europei. La tomba di George Washingtown a Mount Vernon

Riprendiamo la discesa ed arriviamo finalmente sulla riva del fiume, che scorre calmo nel sole. Lo sguardo si riposa sfiorando lentamente le rive lontane; tutto è come fermo in un tempo ormai trascorso; siamo presi da un senso di pace. Ma non c'è tempo per riposare a lungo: si sta facendo tardi. Ritorniamo in cima alla scarpata e ci soffermiamo per qualche minuto davanti alla tomba monumentale, dove George Washington è seppellito vicino alla moglie; qui ci sono molti americani, alcuni dei quali si fanno fotografare con lo sfondo della tomba. La cosa mi sembra di dubbio gusto.
Ci avviamo velocemente all'uscita: mancano due ore e mezza alla partenza dell'aereo e dobbiamo prima tornare a Washington, poi trovare la strada per l'Aeroporto Dulles, fare il pieno di benzina, restituire la macchina, andare con lo shuttle al terminal, fare il check in. Fortunatamente la via del ritorno verso Washington è molto più veloce ed anche più bella dell'andata. Infatti imbrocchiamo la George Washington Memorial Parkway, una superstrada che unisce Washington a Mount Vernon che corre parallelamente al Potomac, costruita appositamente per favorire la visita del complesso monumentale di Mount Vernon; in effetti all'andata non ero riuscito a trovarla. Arrivati all'ingresso di Washington, facendo molta attenzione, riusciamo subito ad immetterci nella freeway 66 che conduce all'aeroporto. Ovviamente l'unica indicazione è il numero, perché non c'è uno straccio di cartello che indichi per esempio: Dulles Airport. Dopo una serie di abili deviazioni, dettate sempre dai quasi invisibili cartelli con il numero 66, ci troviamo finalmente al centro del fascio di autostrade che unisce Washington con il suo aeroporto internazionale (anche se a questo punto il numero 66 scompare). Arrivati a destinazione troviamo senza errore il benzinaio (purtroppo self service come sempre in America) e poi la sede dell'autonoleggio Alamo. Da qui lo shuttle ci porta con largo anticipo al terminal dei voli nazionali. Entriamo e sorge la prima difficoltà: non c'è nessuna segnalazione che indichi l'area di check-in della United Airlines. Poco male, chiediamo a due impiegate, ma nel frattempo Silvana decide che le valigie devono essere trasportate col carrello e siamo costretti a dar fondo a tutti i nostri spiccioli per noleggiarne uno ad un dollaro e mezzo. Spesa folle, considerando che il check-in è vicinissimo e che quindi usiamo il carrello per appena cinque minuti. Mentre siamo in coda per il check-in notiamo vicino ad un altro banco un personaggio che somiglia molto a Fabio Castiglioni. Ha la barba ed i capelli biondi come Fabio; l'unica differenza è che porta la coda di cavallo ed indossa una salopette di tuta mimetica con pesanti scarponi militari.
Dopo il check-in, liberi dai bagagli, ci addentriamo lungo interminabili corridoi fino alla nostra sala di imbarco. Noto che stiamo facendo il percorso parallelo a quello delle linee gialla e violetta di ieri, solo che ieri eravamo fuori ed oggi siamo dentro. Vicino alla sala di imbarco c'è una gabbia di vetro ermeticamente chiusa in cui si può accedere attraverso una porta a molla, su cui è scritto "Smoking Room". Dentro, come in una specie di moderno lazzaretto, sono rinchiusi vari personaggi eterogenei, accomunati dal vizio del fumo, che peraltro ostentano quasi arrogantemente, aspirando con voluttà dalle loro sigarette e soffiando grandi boccate di fumo nell'aria, faticosamente depurata da ben quattro aspiratori sul soffitto. Qualche fumatore, entrando nella stanza, cerca di muovere con grandi gesti del braccio l'aria davanti a sé, il che ci fa pensare che debba essere abbastanza irrespirabile. I non fumatori stanno fuori comodamente seduti a guardare il branco di fumatori stipati nel cubicolo. Ho la sensazione di stare al giardino zoologico davanti alla gabbia delle scimmie. (E pensare che un tempo fumavo il toscano!). Dopo poco Silvana mi fa notare che anche il sosia di Fabio entra nella gabbia per fumare: è questa un'altra differenza rispetto al modello.
Finalmente si parte. Soliti riti, questa volta officiati da uno steward sempre sorridente che si esibisce in continue battute che purtroppo non riusciamo ad afferrare. Portano il cosiddetto rinfresco: c'è un bel panino con la carne, che Silvana accoglie con un gridolino di soddisfazione (a Washington non abbiamo mangiato); io bevo ancora Ginger Ale. Il viaggio dura un'oretta e finalmente vedo dal finestrino la skyline di Atlanta in lontananza: è come un'isola di grattacieli sperduta in mezzo ad un'immensa pianura verde. L'immagine ha qualcosa di fantascientifico: la città sembra una grande astronave.
L'aereo rulla sulla pista e si avvicina alla proboscide (o bocchettone); fuori c'è un bel sole. Attraverso il finestrino intravedo l'addetto alla proboscide: è in calzoncini corti! Lo dico a Silvana ed entrambi impallidiamo: deve fare un caldo pazzesco e noi abbiamo solo vestiti invernali! Silvana mi consola dicendo che possiamo comprarci qualche maglietta in un grande magazzino, ma io sudo già pensando al caldo che sentirò.
L'aeroporto di Atlanta è di un'ampiezza sconvolgente: non avevo mai visto niente di simile. Usciti dal bocchettone ci avviamo nei soliti corridoi seguendo l'indicazione Baggage Claim. Dopo pochi metri ci troviamo davanti a delle porte automatiche che si aprono su una specie di treno sotterraneo che porta appunto alla sala ritiro bagagli. Lo prendo con un certo disappunto, perché avrei preferito sgranchirmi un po' le gambe, ma poi noto che il percorso è un vero e proprio viaggio e che il treno è praticamente una metropolitana, che fa ben quattro fermate ad altrettanti terminal prima di arrivare al capolinea, che corrisponde all'uscita.

La metropolitana interna dell'aeroporto di Atlanta

Dappertutto vedo gente in maglietta e pantaloni di cotone; le donne sono tutte scollate e qualcuno porta gli short. L'aria però è piuttosto fresca ed io ne deduco che nell'aeroporto funziona un bell'impianto di aria condizionata. Quando però, dopo aver sbrigato la formalità del ritiro del bagaglio, usciamo all'aperto, mi accorgo che fuori è più fresco di dentro, anche perché l'ultima luce del giorno è ormai scomparsa. Penso che comunque, almeno per oggi, potremo resistere con i nostri vestiti di lana.
Quando il solito shuttle, questa volta della Hertz, ci deposita alla sede dell'autonoleggio, è ormai sera. L'impiegato della Hertz, uno snello signore anziano con i baffetti, è estremamente gentile e si profonde in consigli e spiegazioni. Abbiamo qualche difficoltà a trovare la nostra Ford Sentra blu in mezzo al mare di macchine del parcheggio, in primo luogo perché essa non è blu, ma celeste chiaro, poi perché semplicemente non ha la targa, ma un semplice cartoncino con quello che sembra il nome del concessionario. Comunque il numero del parcheggio è quello giusto e la chiave che mi hanno consegnato funziona, quindi non ci sono dubbi.
Sulla freeway per Downtown Atlanta noto subito che lo stile di guida è ben diverso da quello un po' sonnacchioso di Washington. Qui guidano in maniera, per così dire, un po' più selvaggia, ma io non ho problemi, grazie ai profondi skill accumulati a Napoli. Seguiamo scrupolosamente le indicazioni fornite dall'impiegato della Hertz, che abbiamo accuratamente annotato e che Silvana, da buona navigatrice, consulta continuamente per indicarmi dove svoltare. Il panorama della città che ci viene incontro è quasi da mozzare il fiato: una selva compatta e intricata di grattacieli illuminati, come le torri di una raffineria o, meglio, come gli edifici di una città marziana. L'impressione prevalente però è di qualcosa di artefatto, come un enorme luna park. Veduta di Atlanta

Usciamo dalla freeway all'uscita giusta, ma poi forse sbagliamo il conto dei semafori ed improvvisamente ci perdiamo nella selva di grattacieli. Come già preannunciato sia dalla mia guida tascabile che da certa pubblicità dell'American Express vista in aeroporto, tutte le strade si chiamano Peachtree; dovunque si volga lo sguardo i cartelli stradali ripetono questo nome ossessivamente: sembra di essere in un incubo. Il nostro albergo, lo Hyatt Regency Hotel sta a Peachtree Street, ma il saperlo non ci è molto di aiuto. Mentre cominciamo a preoccuparci per il nostro futuro, alzo lo sguardo sul grattacielo di fronte e leggo il sospirato nome: siamo a due passi dall'albergo! Una fulminea manovra con piccola scorrettezza (svolta a sinistra non consentita) e siamo sotto il portico d'ingresso dello Hyatt, che mi ricorda molto quello del Fremont Hotel di San José, dove ero stato due anni prima. Anche qui ci sono dei solerti negri che prendono in consegna i bagagli e la macchina e ci consentono di andare alla reception liberi da fastidi. Qui è tutto OK, tranne che non si trova la prenotazione di Silvana. Attimo di brivido, poi, nonostante la stanchezza e l'effetto del time lag, ho un lampo di genio: hanno scritto "D'Auria" senza l'apostrofo! Così è infatti, e finalmente possiamo entrare.
L'albergo sembra una gabbia di matti. Dal portico di ingresso, attraverso una pesante porta girevole, alla quale è bello imprimere una bella spinta per vedere se qualcuno ci rimane frullato dentro, si accede in un enorme atrio coperto sul quale danno una serie di balconate fiorite. Sulle balconate si affacciano direttamente le camere, perché non ci sono corridoi. Appoggiata ad uno dei lati dell'atrio c'è la torre degli ascensori, che salgono e scendono a vista lungo i lati della torre. Qualcosa di simile c'è a New York al Marriot Marquis, dove io dormii una notte alcuni anni fa, ricavandone però un'impressione piuttosto alienante. L'albergo si sta progressivamente riempiendo dei partecipanti al congresso; c'è nell'aria l'atmosfera vibrante della novità e dell'entusiasmo di un bell'evento che sta per cominciare.
Silvana ed io abbiamo due camere identiche sulla stessa verticale su due piani diversi: io ho la 605 e lei la 805, rispettivamente al sesto ed all'ottavo piano. Più che di camere si tratta di due appartamentini o, come si dice in questi casi, di due suite, costituite da salotto con tavolo da pranzo. poltrone e televisore e da camera da letto con letto king size (potrebbero dormirci quattro persone), televisore, minibar e scrittoio. Ci concediamo un'oretta per cambiarci e sistemare i vestiti nell'armadio; il completo grigio che ho messo in valigia ha proprio bisogno di stare un po' appeso per perdere le pieghe acquistate durante il lungo viaggio.
Ci vediamo alle 20 in reception (per noi sono ancora le due di notte) per andare a cena. Decidiamo di non prendere la macchina, anche per non sperimentare subito i riti della consegna nel garage dell'albergo; siamo a downtown e troveremo certamente un buon ristorante. Usciamo dall'albergo e ci avviamo sulla sinistra. Incontriamo un palazzo di uffici rigorosamente vuoto, di aspetto piuttosto lussuoso. Sul portone campeggia la scritta Wachovia in caratteri dorati; ci chiediamo che cosa sia, ma nulla nell'arredo e nel contenuto dell'atrio, di elegante semplicità, consente di comprenderlo. Questo interrogativo ci tormenterà per i giorni a venire, ma alla fine lo scopriremo. Superiamo poi l'ingresso lussuoso e serioso del Ritz Carlton Hotel e subito notiamo quanto sia sobrio ed elegante rispetto al nostro pacchiano Hyatt Regency. Ma comunque ha anche l'aria di essere molto costoso, mentre il nostro costa solo (si fa per dire) 130 dollari a notte, di base; a questo sono da aggiungere le tasse e gli extra, come bevande, garage, lavanderia, ecc.
Proseguiamo lungo la via, ma non vediamo neanche l'ombra di un ristorante. Torniamo sui nostri passi e svoltiamo a destra per una traversa; proprio all'angolo della strada notiamo una vecchia Cadillac (la classica macchina americana della mia infanzia) incastrata nel muro a circa tre metri di altezza: si tratta dell'insegna di un locale, l'Hard Rock, che ci dà tutta la sensazione di essere farcito di droga. Ma forse ci sbagliamo; con gli americani non si può mai dire. Superiamo un ristorante italiano ("Azio Pizza & Pasta") ed uno messicano ("Mama Maria") e finalmente vedo un locale che mi ispira: una steak house dal nome invitante: "Steak 'n' Ale". L'ambiente è molto grazioso anche se piuttosto buio: la sola illuminazione è costituita praticamente dalle candele sui tavoli. Le sedie non sono sedie, ma imponenti poltrone che all'atto pratico risultano piuttosto scomode. Comunque la bistecca è ottima e c'è anche un piacevole salad bar, che però non soddisfa Silvana. Scopro anche che la bistecca non le piace molto, e ne avrò conferma nei prossimi giorni. Comunque stasera siamo troppo stanchi per discutere ed inoltre la penombra dell'ambiente è un continuo attentato alle nostre residue energie. Quando vedo che Silvana sta quasi per calare la testa sul tavolo per addormentarsi, decido di chiedere il conto, ma anch'io dormo letteralmente in piedi, tanto è vero che mi dimentico di prendere la ricevuta. Nella nota spese sarà per fortuna l'unica ricevuta smarrita.
L'aria fresca della sera, resa addirittura un po' frizzante da un bel venticello, ci consente di tornare rapidamente in albergo. Anzi lungo la strada abbiamo modo di apprezzare l'abbigliamento un po' ardito degli americani che sono usciti per la botta di vita del sabato sera: minigonne vertiginose ed abiti di lustrini per le donne, completi azzurri o arancione intonati con capelli biondi chiaramente tinti per gli uomini. Tutti però rigorosamente estivi, il che ci sembra veramente molto strano, visto che con i nostri soprabiti invernali sentiamo quasi freddo. Può darsi che con la luce del sole abbia fatto più caldo e che i passanti siano rimasti sorpresi dal vento improvviso, oppure, più semplicemente, sono tutti un po' pazzi. Del resto neanche all'aeroporto faceva questo grande caldo e stavano tutti in calzoncini corti.
Giunti in albergo scendiamo nei saloni sotterranei che nei prossimi giorni ospiteranno la conferenza CHI 97. Il salone centrale stasera è arredato a night club e nell'oscurità quasi completa, rotta anche qui dalle fioche fiammelle sui tavoli, si intravedono molte coppie allacciate in un ballo lento. Anche qui tutti indossano abiti pacchiani e sgargianti, solo che sulla porta si vedono un bel po' di scarpe da donna con i tacchi a spillo buttate lì con nonchalance dalle proprietarie, che evidentemente hanno preferito continuare la serata senza insistere a tormentare i propri piedi. Del resto, chi sta sempre in comode scarpe da ginnastica ed abiti casual non riesce facilmente ad abituarsi ad un abbigliamento formale. A questo proposito offro a Silvana la mia rimembranza di un matrimonio intravisto per caso a Monterey, in California, dove le amiche della sposa, tutte rigorosamente in abito lungo, camminavano a piedi nudi con le scarpe in mano nei giardinetti in riva al mare, dove avevano scattato le classiche fotografie.
Ma Silvana ed anche io moriamo dal sonno. Domani dovremo frequentare il tutorial sulle interfacce vocali che durerà tutto il giorno: è meglio andare a riposare.
Entro nella mia stanza e provo anche ad accendere la televisione, ma per fortuna la spengo subito, perché il fuso orario colpisce ancora: non appena mi stendo sul letto crollo in un sonno profondo.

Il primo giorno di lavoro ad Atlanta

Domenica 23 marzo 1997

Dopo un sonno interrotto dai soliti risvegli anticipati dovuti alla differenza di fuso orario, mi alzo verso le sei e mezza: è come se avessi poltrito a letto fino alla mezza; di più non ci riesco. Approfitto per fare un paio di telefonate in Italia: una a casa ed una da Uccio a Seiano,che mi aveva invitato proprio oggi per una scampagnata nella sua villa insieme con un gruppo di amici. Purtroppo il viaggio in America mi aveva costretto a rifiutare, ma comunque ora mi fa piacere far sentire la mia voce dall'altra parte dell'Atlantico.
Mi preparo scrupolosamente ed indosso il formale completo grigio che ho portato per partecipare alla conferenza, ravvivandolo però con una cravatta in tinta rossa di Marinella, e scendo alla reception alle otto precise, come da appuntamento con Silvana. Dopo pochi attimi, con l'ascensore successivo, arriva puntualissima anche Silvana. Nonostante sia abbastanza presto la gabbia di matti è in pieno fermento; ci guardiamo intorno in mezzo alla bolgia e decidiamo di fare colazione ad una specie di banco sistemato in un angolo del salone, che ha l'aria di essere abbastanza spicciativo, invece di fare la coda per entrare in uno dei ristoranti dell'albergo. Prendiamo due succhi d'arancia al prezzo di quattro dollari, ma, quando chiedo la ricevuta, la negrona alla cassa, simile alla tata di Rossella O'Hara, mi guarda come un miserabile pezzente e mi dice con tono sprezzante che loro ricevute non ne danno. Non mi resta che ritirarmi in un angolo a bere la mia aranciata, che comunque è orribilmente dolce per i miei gusti.
Ci avviamo verso i piani sotterranei per individuare l'aula del nostro tutorial, quando, proprio all'imbocco della scala mobile, Silvana riconosce Maristella Matera, la ragazza dell'Università di Bari che lavora insieme con la prof.ssa Costabile e che è stata a volte al Corinto di Bari. Maristella indossa la maglietta blu del CHI 97 perché fa parte dello staff della conferenza; sta vicino alla scala mobile per dare informazioni e per indirizzare il pubblico verso la sala giusta. Come sempre accade quando si incontrano degli italiani all'estero, ci salutiamo con grande effusione; Maristella ci comunica che c'è anche la Costabile e che però andrà via un giorno prima, cioè mercoledì.
Sono quasi le nove e dobbiamo affrettarci per raggiungere la sala dove si terrà il tutorial n.7 "Spoken language interface", al quale siamo iscritti e che durerà fino alle 17,30, con l'intervallo per il lunch, naturalmente. L'aula è al piano -2, non è molto grande ed è già quasi piena quando arriviamo, ma, grazie al pudore evidentemente internazionale di occupare la prima fila di posti, ci piazziamo in ottima posizione davanti a tutti. Io gradisco molto la cosa, perché non ho messo le lentine, dopo la massacrante giornata di ieri (ovviamente massacrante per gli occhi, a causa del vento). La docente si chiama Susann LuperFoy (sì la F è maiuscola), è una biondina ossuta e bruttina, ma molto simpatica e fa la ricercatrice presso una certa Mitre Corporation di Washington D.C., oltre ad insegnare all'Università di Georgetown. E pensare che proprio ventiquattro ore fa eravamo a Georgetown a discutere con il proprietario del parcheggio sulla marca della nostra macchina! Forse anche Susann era a Georgetown e forse abbiamo fatto addirittura il viaggio insieme.
Il corso parla ovviamente di interfacce vocali tra uomo e macchina e fa il punto sulle problematiche sullo stato dell'arte della ricerca e della tecnologia in questo campo. La LuperFoy parla con buon accento e con una certa chiarezza: non è faticoso seguirla; inoltre non si ha il tempo di stancarsi, perché ogni tanto viene mostrato qualche divertente filmato.
Alle 10,30 c'è il primo coffee break. Evitiamo accuratamente il caffè e mi meraviglio di non essere ancora caduto preda di una crisi di astinenza, visto che sono già due giorni che non ne tocchiamo. Prendo però un tè senza zucchero e senza nemmeno limone, purtroppo introvabile, mentre Silvana beve acqua; prendiamo poi una fetta di quei dolci americani, simili a sinistri panettoni, fatti di materiale straordinariamente assorbente.
Alle 12,30 c'è l'intervallo per il lunch. Presumiamo che, come il coffee break, anche questo sia offerto dal CHI 97, anche in considerazione del prezzo piuttosto salato (oltre due milioni di lire a testa), che abbiamo pagato per la conferenza e per i due tutorial scelti. Vediamo quindi una sala dove è apparecchiato un self service con carne, insalate ed altri contorni, entriamo e, munitici di piatto e posate, ci mettiamo in fila con una frotta di gente che sta lì a riempirsi i piatti. Siamo appena riusciti a prendere un po' di insalata che un tizio, dopo aver squadrato i nostri badge, ci avverte che il buffet è riservato ai volunteer students, cioè agli studenti che fanno parte, gratis, dello staff della conferenza.
Ci vergogniamo un po', ma passa presto: eravamo in buona fede. Posiamo i piatti appena sporcati ma intatti e risaliamo nel salone della reception dove si affaccia il ristorante Kafe Köbenhavn, dove non eravamo entrati per il breakfast, per non perdere tempo. Il nome di sapore scandinavo potrebbe sembrarmi fuori luogo, se non mi fossi già abbastanza stupito per quello del ristorante italiano che sta al piano di sotto e che si chiama "Avanzare". In effetti non si può dire che questa non sia una parola italiana; peggio sarebbe se (e un orrendo dubbio mi sfiora) avessero pensato che "Avanzare" sia un nome proprio.
Siamo fermi davanti all'ingresso del Köbenhavn decidendo se entrare o non, quando veniamo raggiunti da Francesca Costabile, con cui ci salutiamo, come da copione, con grandi effusioni. La invito a colazione con noi, ma preferisce non mangiare: si siede al nostro tavolo, ma prende solo un bicchiere d'acqua. Silvana ed io ci serviamo ad un magnifico salad bar, che io gradisco moltissimo, mentre lei un po' meno; la qual cosa mi conferma che a Silvana non piacciono le insalatone all'americana. Mentre mangiamo Francesca Costabile ci chiede se il Consorzio è interessato ad instaurare altre collaborazioni per l'anno prossimo; io ovviamente rispondo che l'anno prossimo il Consorzio non c'è più e quindi nessuno può prendere impegni per i partner. Ho l'impressione che la Costabile ci rimanga un po' male.
Torniamo in aula per la lezione del pomeriggio. Ora è più difficile lottare contro il sonno, perché le due del pomeriggio sono le otto di sera in Italia, che è praticamente l'ora di smettere di lavorare. Ma per fortuna c'è il secondo coffee break che ci viene in soccorso. Prendo un altro tè, uno strano dolce che sembra una strana crosta forse alle mandorle e poi una bottiglietta di acqua minerale, che come quasi tutte le acque gasate fuori d'Italia, ha tante bolle che sembra debbano bucare l'esofago. Durante il break facciamo conoscenza con un distinto signore italiano che partecipa al nostro stesso tutorial; lavora alla Fondazione Ugo Bordoni di Roma, ma purtroppo non ne ricordo il nome.
Alle 17,30 in punto, anzi alle 5,30 pm, la lezione finisce. Decidiamo di prendere la macchina e di uscire. Un attimo in camera per sostituire l'abito formale con un abbigliamento casual e subito scendiamo al garage al piano -2 e chiediamo la nostra auto. La procedura ed anche l'ambiente è praticamente lo stesso del Fremont Hotel di San José. In un piccolo ufficio, separato dal garage da una porta a vetri, c'è la solita impiegata di colore che prende le richieste ed il bigliettino consegnato la sera prima dall'impiegato che ha preso in consegna la macchina. Subito ella avverte il garagista e la macchina viene portata in pochi minuti davanti all'ufficio, dove ti aprono le porte, ti fanno entrare, te le chiudono e ti augurano buon viaggio. La porta esterna del garage è elettrica ed è evidentemente comandata da una fotocellula. Un segnale di allarme avverte gli eventuali passanti che una macchina sta uscendo.
Fuori il tempo è splendido e c'è ancora il sole. Ho preso con me le guide e tutto il fascio di fogli con le notizie sui ristoranti di Atlanta raccolte in Internet prima della partenza. Imbocchiamo Peachtree Street verso nord ad andatura lenta e fin troppo turistica, tanto che gli automobilisti locali, che si confermano piuttosto nervosi, continuano a strombazzarmi dietro. Ma non mi interessa: l'aria è limpida e fresca, i vetri dei grattacieli brillano nel sole calante ed io sto assaporando un gran senso di libertà dopo tante ore passate in un'aula sotterranea con sola luce artificiale.
Superiamo l'area del nostro albergo ed entriamo in una zona con una densità di grattacieli inferiore. Si tratta di Buckhead, una zona relativamente nuova, ricca di ristoranti e di centri commerciali. Ci spingiamo sempre più a nord lungo Peachtree Street fino a che, dopo pochi chilometri, la città sembra finita: davanti a noi c'è solo tanta vegetazione, con gli alberi pieni di fiori primaverili bianchi e rosa. Decido che non è il caso di proseguire e giro a destra per una strada secondaria che mi porta in una parallela di Peachtree Street, che percorriamo verso sud, cioè in direzione opposta a prima, in modo da ritornare sui nostri passi. Questa strada, di cui non riesco ad individuare il nome, è molto meno elegante di Peachtree Street; dà piuttosto la sensazione di una via di periferia, un po' squallida come tutte le periferie del mondo. A un certo punto vedo un cartello che parla di "Martin Luther King Memorial" e penso di aver raggiunto una delle zone che intendo visitare nei prossimi giorni. Sulla destra si vedono già le alte torri di Downtown e pensiamo che, tutto sommato, Atlanta non deve essere molto grande. Costeggiamo il muro di un cimitero, che ad un successivo esame della carta stradale si rivelerà come l'Oakland Cemetery, e rientriamo nel centro in una zona vicina al famoso Museo della Coca Cola, riconoscibile da un'enorme insegna su cui campeggia una bottiglia della bevanda, che fu inventata proprio qui ad Atlanta.
Durante questo breve giro si è fatta sera. Ripassiamo vicino al nostro albergo e proseguiamo un'altra volta verso nord lungo Peachtree fino all'incrocio con Ponce de Leon Avenue, nei pressi del Fox Theatre (o Theater, come scrivono gli americani; Teatro della Volpe). Avevamo già notato questo teatro al nostro primo passaggio, per la lunga coda di gente in attesa al botteghino. Ora non c'è più nessuno: evidentemente lo spettacolo è incominciato. è quasi ora di cena e dò a Silvana il fascio di fogli con i ristoranti perché ne scelga uno. Con intuito tipicamente femminile, Silvana va a colpo sicuro e sceglie il più caro, cioè il ristorante The Abbey (L'Abbazia), ricavato in un'antica chiesa sconsacrata, uno dei più famosi ristoranti di Atlanta. Esso è infatti citato anche nella pubblicazione con le attrazioni della città che si trova nella camera dell'albergo e la guida "Stati Uniti - Costa Atlantica", che ho portato dall'Italia, dice specificamente che questo ristorante è adatto "per chi viaggia dopo avere ereditato o per chi è riuscito a rimanere con un po' di soldi alla fine del viaggio". Se Silvana ha dimostrato intuito femminile nello scegliere il ristorante, io a mia volta sfoggio il migliore autocontrollo maschile nell'accettarla con entusiasmo, senza lasciar trapelare la benché minima preoccupazione. Inoltre noto con piacere che The Abbey ha il mai abbastanza apprezzato vantaggio di essere proprio in Ponce de Leon Avenue, cioè praticamente a due passi da dove siamo in questo momento. Ricordo anzi di averlo notato di sfuggita durante uno dei giri precedenti per passare davanti al Fox Theater e quindi, basandomi sul mio proverbiale senso dell'orientamento, dirigo abilmente la macchina attraverso un paio di incroci per raggiungere un parcheggio il più possibile vicino al ristorante. Capita però che il parcheggio è immediatamente prima del ristorante e, quando me ne accorgo, l'ho irrimediabilmente superato. Quindi decido di tornare indietro e, per fare inversione, entro in una provvidenziale area di servizio che si apre invitante alla mia destra. Soddisfatto comunico a Silvana la fatidica frase: "I benzinai servono anche a questo!" e, siccome il senso dell'orientamento serve per trovare i posti, ma non dà alcuna informazione sui sensi vietati, mi ritrovo contro senso sulla strada con il traffico fortunatamente scarso, ma minacciosamente di faccia. Me ne accorgo subito e rimedio con un'accelerata fulminea ed una svolta a destra senza preavviso, in perfetto stile "Sulle strade della California". (Anche se qui veramente siamo in Georgia). Non è la prima volta che mi capita di fare delle belle scorrettezze stradali in America e probabilmente non sarà neanche l'ultima.
Ritrovo il parcheggio dopo un ennesimo giro dell'isolato; è quasi vuoto ed anche un po' sinistro, in verità. Fossi stato a Napoli, avrei avuto paura a lasciarvi la macchina, anche perché si avvicina un tizio che ci chiede (presumibilmente, dato che è piuttosto incomprensibile) se abbiamo intenzione di parcheggiare là. Gli diciamo di sì, perché vogliamo andare a mangiare da The Abbey e quello se ne va sorridente; forse è un addetto del ristorante. Comunque qua mi sento sicuro perché siamo in America e l'unica prudenza consiste nel portare con me la piccola macchina fotografica automatica che avevo preso pensando di scattare qualche foto nel bel sole del pomeriggio. A piedi ci avviamo al ristorante, il cui ingresso è ricavato sulla parete laterale della navata principale dell'abbazia. Si salgono tre scalini e si entra in una piccola anticamera, grande poco più dello spazio fra la porta principale e la porta interna. Al centro del piccolo spazio c'è un piccolo bancone dietro cui ci aspetta una gentilissima signora tutta sorridente, che ci pone le domande di rito, che ormai conosco a memoria e che perciò mi consentono risposte praticamente automatiche: "Yes, we are two. We have no reservation. Yes, no smoking table".
Si avvicina un cameriere vestito da monaco francescano, con tanto di saio marrone, cordone e sandali, che è proprio la dimostrazione vivente del proverbio: "L'abito non fa il monaco". Il salone del ristorante non è altro che la navata centrale della chiesa in cui, al posto dei classici banchi, ci sono invece dei tavolini di legno scuro con pesanti sedie di stile piuttosto ampolloso. Tutto il resto è esattamente quello che ci si aspetterebbe di trovare in una chiesa: vetri colorati sulle ampie vetrate gotiche delle cappelle laterali, quadri di soggetto sacro alle pareti, acquasantiere, statue di angioletti, pulpito e candelabri; il tutto in un'illuminazione piuttosto tetra e soffusa: proprio come una chiesa vera. Oltre l'altare, nel coro, c'è una giovane donna bionda in abito scuro lungo che suona soavemente l'arpa. Alcuni tavolini sono sistemati anche nello spazio rialzato e protetto da balaustre dove un tempo c'era l'altare (grazie a Dio, è il caso di dirlo, il cattivo gusto non è arrivato al punto di conservarlo!). Nel complesso l'effetto è abbastanza sconvolgente: ci fa un po' senso sederci a mangiare in una chiesa, anche se sappiamo benissimo che è ormai sconsacrata, ma in fondo siamo in America ed è lecito aspettarci ogni tanto qualche bella americanata!
Il cameriere ci fa sedere e noto con piacere che compitamente accompagna la sedia di Silvana mentre lei si siede. Quasi subito arriva il cameriere addetto al nostro tavolo con il menu e la lista dei vini. è un negro dallo sguardo vispo e simpatico, ma tutto sommato poco raccomandabile: di tutti i camerieri è quello a cui si vede di più che è il suo saio è solo un travestimento. Inoltre parla con una velocità assurda e con un accento praticamente incomprensibile, il che ci costringe a sforzarci di intuire, più che capire quello che sta dicendo. Preferiamo perciò immergerci nello studio del menu.
Per quanto riguarda le bevande Silvana non ha problemi, perché beve solo acqua (e la mia costernazione per questo si rinnova ogni volta che ci sediamo a tavola). Io invece leggo con raccapriccio la lista dei vini: la mezza bottiglia dei più economici, quelli della California, costa più di quanto sarei disposto a spendere per l'intero pranzo. Cerco febbrilmente la lista delle birre, che in questi casi rappresentano l'ancora di salvezza, ma non ne trovo. Decido allora coraggiosamente di chiedere al nostro monaco negro, che risponde affermativamente ed anzi mi recita un'incomprensibile lista di sette otto birre diverse. Per non fare la figura dello scemo ripeto ad orecchio uno degli ultimi nomi che ho sentito, ma non capito. Fortunatamente arriva una birra scura di produzione locale che trovo veramente buona; anzi decido di ordinarla anche nei prossimi giorni.
Silvana, che si sforza sempre di essere parca (ma a volte, con mia soddisfazione, non ci riesce) decide di ordinare solo il piatto principale, che corrisponde più o meno ad un nostro secondo, ma più ricco. La scelta cade su un ottimo piatto di carne con asparagi, salsa di funghi ed altri squisiti contorni che non ricordo. Io approvo e mi associo, ma prima chiedo un'insalata piuttosto elaborata, che mangio con molto gusto mentre Silvana mi guarda. Poi viene servita la carne, che è veramente squisita: si vede che questo locale è veramente ad un livello superiore. Silvana, nonostante beva solo acqua, diventa sempre più allegra; io, che addirittura bevo anche la birra, mi faccio facilmente contagiare.
Finita con grande soddisfazione la carne, il monaco negro arriva con la lista del dessert, fortunatamente scritta. L'occhio mi cade su un "Key lime cake", cioè su un dolce a base di crema di lime delle Florida Keys, fatta cioè con quei frutti simili a piccoli limoni verdi che provengono dalla catena di isolette, le Florida Keys appunto, che si protendono dalla punta estrema della Florida nel Golfo del Messico in direzione di Cuba. Avevo assaggiato questo dolce durante uno dei miei soggiorni a Raleigh, una sera che ero stato a cena con un collega americano e la moglie. Proprio lui mi aveva consigliato questo dolce, che avevo trovato squisito. Per questo adesso lo consiglio vivamente stasera a Silvana, che però in questo momento non ha alcun bisogno di essere pregata. I dolci arrivano, presentati elegantemente in una grossa conchiglia simile a quella della capasanta o, come mi piace dire, a quella della benzina Shell. Sono squisiti come ci aspettavamo e cominciamo a mangiarli prendendo la crema col cucchiaino dall'interno della conchiglia. Improvvisamente arriva il negro con in mano un enorme macinino da pepe e spara una domanda incomprensibile. Io mi affretto a coprire il mio Key lime cake con la mano implorando orripilato: "Pepper? Here? No, thank you!". Il cameriere scoppia a ridere, e Silvana lo segue a ruota: non smetterà più (Silvana, non il cameriere) per tutta la serata. Per i più curiosi dei miei volenterosi lettori, posso dire che probabilmente, come abbiamo poi supposto, il monaco voleva offrirci un po' del loro orribile caffè, che veniva portato in giro per tutta la sala dentro un'enorme caffettiera di peltro, in puro stile conventuale. Anche se avessi capito subito, avrei rifiutato ugualmente.
L'ilarità ormai imperante ci impedisce di preoccuparci del conto, che risulta anche abbastanza equo, in proporzione alla qualità ed anche alla varietà di ciò che abbiamo mangiato: una quarantina di dollari a testa, il doppio di quanto spendiamo abitualmente, ma comunque nulla di eccessivo rispetto agli standard italiani (circa 70.000 lire) per questo tipo di ristorante.
Prendiamo i soprabiti che ci riconsegnano all'uscita ed usciamo nella serata limpida allietata da una splendida luna piena. La temperatura è così tiepida, che vorrei togliermi anche il giubbotto, ma qualche brezza fresca ogni tanto mi consiglia di tenerlo. Decidiamo di passeggiare un po' nei paraggi e ritorniamo verso il Fox Theater. Passiamo davanti ad un grande ma anonimo edificio con la scritta Wachovia, ed ancora una volta ci chiediamo che cosa sia.
Le strade adesso sono quasi deserte: se fossimo in Italia potremmo temere di fare dei brutti incontri, ma qui siamo in piena sindrome del turista. è solo la stanchezza del fuso orario non ancora assorbito che ci fa decidere di ritornare al parcheggio per riprendere la macchina e ritornare in albergo. Un breve giro per il centro di Atlanta tutta illuminata e siamo allo Hyatt. Il negro in livrea all'ingresso, che prende in consegna l'auto, ormai ci riconosce e ci saluta cordialmente. Commento con Silvana che questa è una delle piccole soddisfazioni della vita: non solo non dover cercare parcheggio, ma essere riveriti e ringraziati per aver abbandonato la macchina in mano a qualcuno che se ne prenderà cura al posto tuo.
Agli ascensori ci salutiamo e ci ritiriamo nelle nostre camere. Non mangio i cioccolatini che trovo sul cuscino: anche stasera sono tanto stanco da addormentarmi subito.

Atlanta e dintorni

Lunedì 24 marzo 1997

Oggi abbiamo un tutorial di sola mezza giornata, quindi il pomeriggio è a disposizione per una visita più approfondita della città e dei dintorni. In effetti è l'unico periodo di tempo libero di una certa durata in tutto il nostro soggiorno ad Atlanta, quindi già appena mi sveglio comincio a progettare gite, visite, escursioni e consulto febbrilmente le mie guide e le mie carte. Mentre dedico la mia solita oretta alle abluzioni mattutine, traccio nella mia mente un possibile programma: la prima tappa sarà la Stone Mountain, un'enorme formazione rocciosa monolitica a circa 16 miglia da Atlanta, sede di un parco attrezzato come ce ne sono tanti negli Stati Uniti in luoghi di interesse naturalistico. Poi si potrebbe visitare la casa natale di Martin Luther King, il museo della Coca Cola, l'Underground Atlanta e così via.
Quando però mi incontro con Silvana al nostro solito appuntamento del mattino alla reception dell'hotel, ho la sensazione che i miei programmi potrebbero subire qualche modifica: Silvana oltre alle visite pensa anche allo shopping ed il guaio è che anche io dovrei, anzi devo, pensarci, dato che, se Silvana lo fa solo per piacere, io sono costretto a farlo per dovere, vista la spaventosa lista di acquisti che mi ritrovo. Decidiamo di non fare colazione, sia per non doverci addentrare nel bailamme dei vari bar e ristoranti dello Hyatt, sia per cercare di ridurre l'ingurgitamento di calorie, cui non sappiamo rinunciare durante i sempre diversi e fantasiosi coffee break offerti dall'organizzazione del CHI 97. Mentre ci aggiriamo nell'area della conferenza in attesa di entrare in aula, incontriamo Maristella e le raccontiamo le nostre impressioni sul pomeriggio e sulla serata di ieri. Maristella corregge subito la nostra convinzione che Atlanta sia piccola; lei ci è vissuta per molti mesi e ci dice che la città non si limita al solo centro, un po' artificioso con il suo mazzo di grattacieli, ma si estende in un'area vastissima, con belle case sparse nel verde di parchi fioriti e grandi centri commerciali. A questo proposito ci consiglia di non limitarci a fare acquisti nel Macy's vicino all'albergo, ma di andare a Lenox Square, dove c'è un'area per lo shopping molto più grande e fornita e si trova sempre su Peachtree Street verso nord, ma più avanti di dove ci siamo spinti ieri.
Si fanno le nove ed entriamo nell'aula del nostro tutorial di oggi, intitolato "Software Agents", tenuto da un tizio della Intel, Marc Millier, una specie di piccolo vichingo un po' tarchiato, con una gran barba bionda, in maglietta e pantaloni di cotone (nonostante nell'aula ci sia un condizionamento pressoché brutale) ed una pronuncia abbastanza intrattabile. Oggi, dopo la "cacciata" di ieri, anch'io sono in abbigliamento casual ed anche Silvana ha smesso il tailleur ed indossa dei più comodi jeans. L'argomento del tutorial è molto interessante e attuale; si può dire che rappresenta una delle mode del momento.
Al coffee break facciamo spudoratamente il pieno, sia perché non abbiamo mangiato la mattina, sia perché non abbiamo nessuna intenzione di perdere tempo per il lunch, dovendo andare subito in gita il pomeriggio. Alle 12,30 in punto il tutorial finisce e siamo liberi. Saliamo un momento in camera per prendere le rispettive macchine fotografiche e poi scendiamo al livello -2 per ritirare la macchina in garage.
Conosco già la strada per andare alla Stone Mountain: la guida dice che bisogna prendere la Interstate 78 che si imbocca da Ponce de Leon Avenue verso est; si parte cioè dal nostro ristorante di ieri sera, The Abbey. La giornata è bella come ieri anche se fa parecchio più caldo; ho portato il giubbotto di renna, ma non lo indosso: farà un'ottima gita sul sedile posteriore dell'auto. Silvana invece, più freddolosa, insiste con il giaccone pesante, nonostante le mie continue rampogne e la mia frase ricorrente in questi casi: " Trascende la mia comprensione!".
Usciti da Ponce de Leon entriamo subito in una zona della città semplicemente stupenda, bella da mozzare il fiato. è un continuo susseguirsi di prati verdi con bellissimi alberi fioriti, tra cui, a causa della mia deplorevole ignoranza in botanica, distinguo solo le magnolie, e di splendide case in perfetto stile "vecchio sud", tutte di legno e quasi tutte bianche. Finalmente, lasciatoci alle spalle il paesaggio artificiale dei grattacieli, ci caliamo in quello che avevamo immaginato fosse la Georgia: una splendida scenografia da "Via col vento", dove, più che le automobili, immagineresti di veder passare carrozze e baldi cavalieri con la divisa grigio-azzurra dell'esercito sudista. Pensiamo però che questa deve essere una zona residenziale, dove abitano i ricchi; in effetti la periferia vista ieri sembra lontana anni luce da questo posto. Neanche le zone residenziali di lusso delle nostre città sono così belle. Vorremmo scattare qualche foto, ma il traffico che urge alle nostre spalle ci impedisce di fermarci; ci ripromettiamo di farlo al ritorno e rimpiangiamo di non aver portato la telecamera.
Improvvisamente come era cominciato, il paesaggio da favola finisce; ci troviamo su una bella superstrada che corre in una campagna verde. L'uscita per il parco della Stone Mountain è ben segnalata e subito arriviamo all'ingresso del parco, che, come vidi già a Yosemite, consiste in un cancello guardato da un casello, simile a quelli delle nostre autostrade, adibito a biglietteria. In effetti l'ingresso è sempre a pagamento ed i soldi servono per la manutenzione del parco. Insieme coi biglietti riceviamo un pieghevole in cui sono descritti accuratamente tutti i servizi e le attrazioni del luogo. Cerco con poco successo di studiarlo al volo per cercare di raccapezzarmi e poi, attratto da un cartello, propongo di visitare per prima cosa il museo "Road to Tara" (cioè "la strada per Tara", la mitica casa del fortunato e onnipresente romanzo di Margaret Mitchell), ma Silvana mi stronca subito, facendomi notare che tutto è a pagamento, con prezzi (minimo tre dollari e mezzo) non certo indifferenti per il nostro cambio disastrato. Decidiamo quindi di dosare gli investimenti col contagocce e proseguiamo in macchina lungo la via principale del parco, che gira intorno all'enorme pietra che gli dà il nome. Arriviamo in un grande spiazzo che si rivela subito come la piazza della stazione di un classico trenino del Far West, che gira anch'esso intorno al pietrone fermandosi continuamente e, soprattutto, fischiando ad ogni piè sospinto con il classico suono un po' lamentoso, che abbiamo imparato fin da bambini vedendo i film western. Propongo timidamente una gita in treno, ma vengo di nuovo miseramente bocciato. Credendo allora di aver capito l'antifona, mi adeguo ad un regime di rigida austerità e lancio la baldanzosa idea di scalare la montagna di pietra a piedi. Ma, come è vero che non riuscirò mai a capire le donne, vengo ancora una volta redarguito e, come è giusto dopo ben tre errori, con maggiore severità: saliremo sulla Stone Mountain, ma con la funivia, al prezzo di quattro dollari a testa.
Parcheggiamo nel piazzale della stazione inferiore della funivia, che sul pieghevole è definita pomposamente come "Swiss cable car" (funivia svizzera), facciamo la solita coda per il biglietto insieme con una frotta di turisti americani in maglietta e finalmente prendiamo la prima cabina e partiamo. La salita è prima ripida e poi più dolce, a causa della forma della montagna che è proprio come un sasso tondeggiante. Subito saliamo di fronte ad un'enorme scultura, realizzata sulla parte più ripida della montagna, che rappresenta il generale Robert E. Lee, il presidente Jefferson Davis ed il generale Stonewall Jackson, tutti sudisti della Guerra di Secessione; vorrei fotografare, ma i vetri della cabina non si aprono ed abbiamo il sole in faccia. Durante la salita una signora americana con marito e figlio, sentendoci parlare, ci riconosce per italiani e ci dice che è stata in Italia e che l'ha trovata very nice. Questo episodio ci ringalluzzisce molto: commentiamo fra di noi che l'America è certamente bella e interessante, ma come la nostra Italia non c'è niente al mondo.
Nel frattempo siamo arrivati in cima. Si passa attraverso la stazione superiore, che, oltre al solito bar, ospita anche una specie di piccolo museo geologico, e si esce sulla cima della montagna. Essa è veramente come ci si aspettava: un grosso sasso bianco poggiato sulla pianura verde. In lontananza verso ovest si vede la classica skyline di Atlanta con il gruppo di grattacieli del centro sorgenti come un mazzo di funghi in mezzo al piatto profilo dell'orizzonte. Silvana non è molto entusiasta e trova il tutto abbastanza banale; io insisto per scattare un paio di foto e per andare fin sul bordo del sasso, dove la discesa diventa più ripida. Mentre scendiamo veniamo sorpassati da una specie di ruspa, che prosegue pericolosamente lungo la discesa sempre più ripida verso un cantiere di lavoro in basso. Ci aspettiamo di vederla capovolgersi da un momento all'altro, ma per fortuna ciò non accade. Mentre ammiriamo il panorama vediamo arrivare dal basso un gruppo di turisti che ha fatto la salita a piedi. Faccio notare a Silvana la loro sportività, rimproverandola di avermi impedito di esibire il mio valore, ma la vista delle lingue penzoloni e del copioso sudore dei baldi sportivi mi rallegra e mi conferma sulla bontà della scelta dell'ascensione in funivia. Stone Mountain

Torniamo sui nostri passi chiedendoci quale possa essere l'origine della Stone Mountain. Silvana ipotizza possa essere un meteorite gigante; io scarto decisamente questa ipotesi, data l'assoluta mancanza di un cratere, che sarebbe dovuto essere enorme, viste le dimensioni della massa rocciosa. Penso piuttosto che si tratti di roccia effusa allo stato liquido in tempi preistorici. Nel piccolo museo della stazione superiore la mia ipotesi viene confermata: una serie di disegni e di fotografie mostra come, a causa della deriva dei continenti, si sia creata una compressione nella zolla nordamericana, con conseguente creazione delle antiche catene costiere orientali (Appalachians ed Alleghany) e successiva creazione di bolle di roccia fusa nella crosta. Una di queste bolle, portata in superficie dall'erosione, formò la Stone Mountain.
Per scendere scartiamo la prima cabina della funivia perché ci sembra troppo affollata e vorremmo invece conquistare un posto vicino ai finestrini per poter fotografare la scultura sul fianco della montagna. Purtroppo però anche con la cabina successiva il desiderio viene frustrato a causa delle sfavorevoli condizioni di luce. Ci sfogheremo andando poi a piedi in uno spiazzo proprio sotto la scultura, con un muretto che sembra fatto apposta per mettersi in posa. La scultura sul fianco della Stone Mountain  

Riprendiamo la macchina e ci accingiamo a fare il giro completo della montagna, quando vengo attirato da un panorama particolarmente bello con un laghetto circondato da pini. Ci fermiamo e ci avviamo verso la riva, dove troviamo un vecchio mulino ad acqua, tutto in legno, con la ruota che gira lentamente, spinta dalla forza della corrente di un ruscello deviato verso il mulino da appositi canali anch'essi di legno. Tutt'intorno fiori ed alberi fioriti. Scattiamo delle belle fotografie e poi usciamo dal parco per ritornare verso Atlanta.
Seguiamo le scarse frecce fino ad un bivio privo di qualsiasi segnalazione, se si escludono i soliti misteriosi numeri delle strade. Silvana, basandosi sul suo intuito, mi indica una certa direzione; io, ormai completamente smidollato, accetto supinamente. Ovviamente sbagliamo strada. Ci ritroviamo su uno stradone trafficatissimo, con un semaforo ogni duecento metri, dove si avanza con penosa lentezza. Per di più, dato che siamo all'orario di uscita dalle scuole, incocciamo un nugolo di gialli school bus che partono tutti contemporaneamente per smistare i bambini che tornano a casa in tutte le direzioni. Il contrattempo è sufficiente a svegliarmi ed a farmi riprendere le redini della situazione (come è giusto). Il numero 10 della strada che stiamo percorrendo mi fa ricordare ciò che avevo già notato, studiando l'itinerario al mattino: questa è una via alternativa per arrivare ad Atlanta, che si rivela adesso meno conveniente. Al primo semaforo inverto la marcia e ritorno al punto di partenza, cioè all'ingresso del parco, non senza aver vagato un pochino per qualche paesetto stile vecchia America. Poi ricomincio da capo il percorso ed al bivio senza segnalazioni scelgo l'altra direzione. è così che riusciamo a riimmetterci sulla Stone Mountain Parkway dell'andata, che tra l'altro ci consentirà di ritornare nella zona delle ville favolose, che potremo così fotografare. Silvana alla Stone Mountain

Fatte le foto, ci mettiamo alla ricerca della casa di Martin Luther King, che è la prossima tappa della nostra gita. Silvana, carta alla mano, fa da navigatrice, il che mi consente di trovare con non molti tentativi la strada, Auburn Street, dove sorgono la casa e la chiesa luterana dove officiava il padre del giovane Martin Luther. La zona è molto più dimessa e modesta rispetto al quartiere residenziale che abbiamo da poco lasciato; le strade sono assolate, non c'è molta vegetazione e dappertutto non si vedono che gruppi di passanti di colore. Entriamo in un edificio di mattoni rossi su cui campeggiano grandi cartelli che annunciano visite guidate alla casa dei King. L'interno della sala è quasi tutto occupato da un camion dei pompieri di almeno cinquant'anni fa, simile a quei vecchi camion rossi che si vedono nei racconti di Paperino, con le scale a vista e Paperino con gli altri pompieri aggrappati alle strutture esterne. Non riusciamo a capire che cosa significhi tutto ciò, ma poi scopriamo che le visite guidate partono proprio dalla vecchia caserma dei pompieri del quartiere. Comunque veniamo a sapere anche che le visite per oggi sono finite: la cosa ci lascia però praticamente indifferenti, perché ci accontentiamo di vedere la casa dall'esterno.
Per arrivare alla casa basta fare due passi a piedi per una via in salita fiancheggiata da casette di legno a prima vista disabitate, tutte a due piani e tutte con il portico coperto cui si accede salendo tre scalini; sul portico le immancabili sedie a dondolo rivolte verso la strada. Le case sono tutte verniciate in vari colori; quella di Martin Luther King è la più tetra, dipinta in nero e marrone chiaro: si vede proprio che è la casa di un pastore luterano. Scattata la foto di prammatica, torniamo sui nostri passi. Passando davanti ad una delle ultime case della strada, noto dietro ai vetri di una finestra un bellissimo gatto bianco che ci guarda impassibile. Non posso fare a meno di fotografarlo.
Si è fatto tardi ed i raggi del sole sono diventati obliqui; mi rendo conto che è il momento di cominciare a pensare al dovere, cioè allo shopping e perciò rinuncio alle altre visite cha avevo in mente, e principalmente a quella del museo della Coca Cola. Risaliamo tutta Auburn Street verso Downtown e ci troviamo presso il nostro albergo. Di qui ci rimettiamo su Peachtree Street in direzione nord esattamente come ieri e, seguendo le indicazioni di Maristella, ci avviamo verso Lenox Square. A proposito di Maristella, abbiamo un appuntamento volante con lei e con Francesca Costabile alle otto meno un quarto per andare eventualmente a cena insieme stasera. L'aggettivo "volante" significa che si tratta di un appuntamento improbabile, cioè ... che se non ce la si fa, non ci si va (scusate il bisticcio di monosillabi).
Ben presto superiamo Buckhead ed il bivio dove ieri eravamo tornati indietro: la strada sembra interminabile e non ci sono tracce di Lenox Square. Comunque i punti di riferimento forniti da Maristella non sono ancora apparsi e perciò proseguiamo imperterriti. Dopo molti chilometri ed un tempo infinito ci togliamo definitivamente dalla testa l'idea che Atlanta sia piccola ed arriviamo infine a Lenox Square, che non è una piazza, come farebbe pensare il nome, ma un enorme elefantiaco centro commerciale. L'aspetto esteriore è sempre lo stesso: un megaparcheggio costeggiato da edifici ad un solo piano: spiccano le insegne luminose di alcuni negozi. Vorrei parcheggiare nell'unica zona quasi completamente vuota, ma Silvana mi fa notare che si tratta di un'area riservata ai possessori di una fantomatica carta, per cui preferisco evitare grane e trovo un posto più tranquillo anche se più lontano dall'ingresso laterale che abbiamo prescelto.
Entriamo e siamo investiti da un aggressivo odore di chewing gum: si tratta di una gelateria, anche se in effetti l'odore non lo farebbe pensare. Vorrei offrire un gelato a Silvana, che però rifiuta. L'ambiente interno è esattamente identico a quello di tutti i centri commerciali che ho già visto; anche i nomi dei negozi sono gli stessi: Macy's, Circuit City, Athlete Foot, e così via. Non c'è nessuna traccia che indichi che siamo ad Atlanta: potremmo essere indifferentemente a Raleigh, a San José, a Sacramento o a Boca Raton. Gli unici negozi o grandi magazzini con una propria personalità li ho visti infatti solo a New York e a San Francisco, che comunque anche per altri aspetti, somigliano di più a delle città europee.
Ci infiliamo in un grande magazzino (forse Macy's o qualcosa di simile) e Silvana comincia subito a fermarsi continuamente, anche in zone che io non degno di uno sguardo. Dopo non più di trenta secondi sono già distrutto ed anche Silvana se ne accorge: proprio non sono buono per lo shopping! Decido di vagare in un raggio di cinquanta metri da Silvana, mentre ci teniamo d'occhio reciprocamente per non perderci, e magari di pensare ai regali che devo portare in Italia (in particolare Cinzia ha chiesto espressamente dei jeans Levi's di cui mi ha dato numero e misure precisi). Dopo un po' Silvana sceglie una camicetta di seta per sé, che a me non sembra né meglio né peggio delle altre (è comunque una pezza!), ma che lei, per qualche misterioso motivo, giudica molto carina. La forza della disperazione mi fa avere un'illuminazione improvvisa: ne comprerò una uguale a Carmen, che per fortuna ha più o meno la stessa taglia di Silvana. Le chiedo febbrilmente dove l'ha trovata e corro a prenderne una anch'io; Silvana mi fa notare che la tinta è leggermente diversa dalla sua, ma io giustamente obietto: -De minimis non curat praetor-.
Archiviato il primo e più doveroso regalino, comincio ad occuparmi dei jeans di Cinzia, ma con scarso successo: la mia esasperazione è al colmo quando mi rendo conto che la misura più piccola che trovo è sempre di un numero superiore a quella richiesta da mia figlia. E intanto Silvana non fa nulla per aiutarmi, sempre occupata a vagare senza scopo apparente in mezzo a montagne di ciarpame. Finalmente però sembra avere pietà di me e decide di aiutarmi: chiediamo ad una commessa dove trovare la misura richiesta da Cinzia e quella ci indirizza al reparto ragazzi. Sì perché Cinzia è magra come ero anch'io alla sua età, quando ero alto come adesso, ma pesavo 65 chili invece di 99. Al reparto giusto trovo immediatamente la taglia richiesta e acquisto a scatola chiusa, senza pensare che, dato il cambio particolarmente sfavorevole, forse non ho risparmiato nulla rispetto all'Italia.
Pensiamo adesso a Rosanna, che è molto attenta alle spese superflue e mi ha espressamente intimato di non portarle nulla. Non posso però presentarmi a mani vuote e, privo completamente di idee come sono, chiedo ancora disperatamente aiuto a Silvana, che va a colpo sicuro: mi fa acquistare una giacca jeans (che Rosanna gradirà molto al mio ritorno).
In tutto questo Silvana ha solo comprato la camicetta di seta per sé, ma non ha ancora trovato i jeans richiesti dal suo ragazzo Ermanno e da suo fratello. La verità è che essi non le hanno dato indicazioni dettagliate come ha fatto Cinzia con me e Silvana non ha voglia di fare acquisti sbagliati. Comincio a prendere le parti di quei due poveracci, che rischiano seriamente di non vedersi portare alcun souvenir dagli States, ma più insisto con Silvana, più la vedo accanirsi contro di loro con femminile protervia.
- Prendi almeno qualche altra cosa - le dico.
- No, non so che comprare. Dovevano darmi le misure esatte! Credono che io mi possa scervellare per loro?- risponde quella stessa che ha inventato su due piedi il regalo per Rosanna, senza affatto scervellarsi.
Si giunge ad un compromesso: Ermanno ed il fratello riceveranno stasera una telefonata ultimatum: - Andate in un negozio e fatevi dire le misure dei jeans Levi's che vanno bene per voi. Altrimenti niente regalo!-
Tremo al pensiero della sorte dei due poveracci, ma, così è la vita: ognuno ha le sue gatte da pelare!
Chiuso l'argomento regali per la moglie e le figlie, comincio a preoccuparmi per i miei nipotini Stefano ed Elena. Inoltre ci sono le amiche Stefania e Anna Maria e poi la dibattuta questione del mio telefonino rimasto fuori uso in Italia perché anche l'ultima batteria ha tirato le cuoia e mi piacerebbe comprarne uno nuovo invece di sostituire la batteria, che è comunque piuttosto cara rispetto al valore residuo del telefonino. Mi aggrappo disperatamente a Silvana per consigli e pareri sui pochi oggetti che in mezzo a tutto quel bailamme riescono a colpire la mia fantasia, ma comunque alla fine non c'è nulla che mi soddisfi.
Intanto si è fatto tardi e siamo stanchi di trascinare le nostre ossa già provate dalla differenza di fuso orario, quindi decidiamo di andare a mangiare. Prendiamo la macchina e ritorniamo sulla Peachtree Street verso sud, cioè in direzione del nostro albergo. Questo tratto della strada pullula di ristoranti: non c'è che l'imbarazzo della scelta. Silvana sta proponendo un ristorante indiano, quando improvvisamente mi si para davanti, invitante, una steak house di nome Houston e con fulminea manovra esco dalla corrente del traffico e mi infilo nell'unico posto libero del piccolo parcheggio. Il ristorante sta in un edificio isolato ad un solo piano, tutto di legno e vetri, con l'insegna al neon di colore rosso brillante. Come in tutte le steak house di questo tipo, il bar è al centro della sala, mentre da un lato la carne viene arrostita su grandi griglie sotto lo sguardo del pubblico. I tavoli sono di massello di legno lucido e non ci sono tovaglie. L'immancabile candela su ogni tavolo contribuisce a diradare la penombra in cui è immerso l'ambiente. Mi sento subito a mio agio perché il locale mi ricorda molto la steak house di Raleigh, dove andai alcuni anni fa, con le cameriere vestite come ragazzine americane anni '50, con i calzoncini corti, i calzettoni e la coda di cavallo immancabilmente bionda. Al tavolo dove mi ero seduto con il collega della IBM spagnola, di Barcellona precisamente, con cui lavoravo in quel periodo, venne a servirci la biondina tutta pepe Sharon, che si inginocchiò a terra per scrivere le ordinazioni sul suo blocco notes appoggiato sul tavolo e poi rimase a lungo a parlare con noi della città, della North Carolina e della sua vita.
Qui non ci sono biondine, ma solo camerieri negri dall'aspetto un po' tetro, ma ciò non mi impedisce di ordinare un classico impegnativo prime rib, cioè una bistecca di costata di manzo che di solito pesa un po' meno di un chilo. Alla classica richiesta sul punto di cottura desiderato, rispondo come d'abitudine: " Rare". cioè al sangue. Silvana, che non se la sente di mangiare tanto, ordina invece un piatto, forse un ribsemplice, che si rivela essere poco più di un bell'osso con un po' di grasso attaccato. Io, come se non bastasse, mi faccio portare anche un'insalata verde di dimensioni mostruose, che mangio naturalmente come starter. Il prime rib , che arriva subito dopo insieme col piatto di Silvana, è ottimo anche se lo trovo un po' grasso, il che mi costringe a scartarne una parte. Mi rifaccio naturalmente col contorno: mashed potatoes con salsa olandese e salsa di rafano. Innaffio il tutto con la birra che ho imparato ieri sera al ristorante The Abbey.
Mentre io mangio da scoppiare Silvana resta quasi digiuna, anzi trascorre la maggior parte del tempo a guardare le mie mandibole lavorare con grande regolarità. Deve trattarsi di uno spettacolo piuttosto monotono, se dopo un po' la vedo lentamente reclinare la testa da un lato, mentre lo sguardo le si appanna ed assume l'aspetto di quei martiri denutriti raffigurati sui santini che si distribuiscono nelle chiese. Mi rendo conto del suo stato di incipiente torpore e le dico: - Sembri la Madonna Addolorata!-.
Basta questo perché scoppiamo a ridere e perché ci passi il sonno, ma solo momentaneamente. Chiedo subito il conto e prometto solennemente ad alta voce di non portare più Silvana a mangiare bistecche, visto che ogni volta rimane digiuna (come due sere fa da Steak 'n' Ale). Tornando verso casa (pardon, verso l'albergo, ma in questi giorni è questa la nostra casa), noto sulla destra l'insegna del ristorante italiano "Fratelli di Napoli", che già mi aveva colpito per il suo nome sull'elenco dei ristoranti preso da internet. Quello è un altro posto dove non andremo mai: non amo la cucina italiana fuori d'Italia.
Giunti allo Hyatt, lasciamo la macchina al negro in livrea, che ormai mi riconosce e mi augura la buona notte chiamandomi per nome, e poi, stanchissimi, ci ritiriamo subito. Trovo come al solito la luce accesa sul comodino ed il letto aperto con i cioccolatini sul cuscino, ma stasera la luce è accesa anche i salotto, dove illumina scenograficamente una bottiglia di vino rosso della California, appoggiata obliquamente su un supporto di metallo, con vicino il cavatappi e due calici di cristallo. Telefono immediatamente a Silvana: - Hai trovato pure tu la bottiglia di vino in salotto?-
- No - risponde lei - Perché?-
- Io ho trovato la luce accesa in salotto e sul tavolino c'è una bottiglia di vino rosso con due bicchieri. Dobbiamo assolutamente aprirla. Evidentemente ci hanno visti insieme ed hanno pensato che mi avrebbe fatto piacere brindare con te. Non posso fare questa brutta figura che non la apro!- dico, cercando di essere spiritoso. Ma so di star perorando una causa persa: Silvana non beve mai, nemmeno quando siamo a cena, figuriamoci se scende a bere adesso da me! E so benissimo che il motivo non è il fatto che sia astemia.
Ci auguriamo la buona notte ed io lascio la bottiglia chiusa, dopo aver spento ovviamente il faretto che la illuminava. Mi addormento subito pensando che in fondo la bottiglia e là e che forse nei prossimi giorni riuscirò ad aprirla.

Il primo giorno della Conferenza

Martedì 25 marzo 1997

Oggi inizia ufficialmente la Conferenza CHI 97 con una sessione plenaria nel salone principale dell'hotel Hyatt Regency. Per questo indosso nuovamente il vestito grigio con un'altra cravatta di Marinella (nel caso che qualcuno si ricordi di quella di due giorni fa). Secondo l'abitudine ormai instaurata, mi incontro nella hall con Silvana che per l'occasione indossa un formale tailleur grigio. Non tardiamo ad accorgerci che tutto questo aplomb è completamente sprecato: qua ognuno si veste come gli pare; ci sono molti abiti casual, anche se devo dire che oggi i vestiti un po' più formali sono in percentuale maggiore.
Il salone della conferenza, denominato Centennial, è grandissimo ed è stato ottenuto facendo scomparire tre pareti scorrevoli che ieri lo dividevano in quattro sale più piccole (Centennial I, II, III e IV). L'onore di aprire i lavori è affidato ad un certo Rick Prelinger, fondatore e proprietario dei Prelinger Archives, contenenti oltre 33.000 film pubblicitari ed amatoriali; questo signore si guadagna da vivere, abbondantemente - credo -, facendo il consulente per il cinema e la televisione e facendo l'editore di CD-ROM basati sui suoi archivi. Non oso immaginare quanto avrà chiesto (e ottenuto) per il suo intervento di un'ora e mezza intitolato: "The Future as It Was". Si tratta comunque di una presentazione piacevole e scorrevole, anche perché la parte parlata (con accento un po' troppo americano) è nettamente più breve dei numerosi filmati, tutti d'epoca e tutti romanticamente nostalgici, che vengono mostrati. Si incomincia con un cortometraggio dei primi anni '50, in bianco e nero, dove si vede una signora, che mi è subito simpatica perché è vestita come mia madre quando io ero bambino, con un robot che si occupa di tutte le faccende domestiche. Seguono altri filmetti, per lo più pubblicitari, che mostrano antiche conquiste della tecnologia, come il plexiglas ed il telefono in ogni stanza; inframmezzati a questi altri film più fantascientifici, con immagini di futuri mondi utopici. In effetti l'intervento di Prelinger fa riflettere sul fatto che, quello che ci aspettavamo sarebbe avvenuto nel 2000, in effetti non si è realizzato. Ricordo la notte dello sbarco sulla luna, il 21 luglio 1969: chi poteva immaginare che quella sarebbe stata l'ultima tappa e non la prima?
Al termine della sessione plenaria usciamo dalla sala ed entriamo nell'ampio spazio riservato al coffee break. Qui incontriamo Francesca Costabile, che ci ricorda che stasera ci sarà la cosiddetta Conference Reception, cioè il ricevimento ufficiale della Conferenza, che si svolgerà allo SciTrec, The Science and Technology Museum of Atlanta. Il programma della serata prevede la visita del museo, una cena in cui è promesso "delicious food", musica suonata da artisti locali e mostre scientifiche particolari. L'unica cosa che lascia un po' perplessi è che le partenze per il museo sono previste in un arco di tempo che va dalle sette e un quarto alle undici meno un quarto di sera, quindi la cena non può che essere in piedi, con relativa bagarre assicurata per gli ospiti più tempestivi e digiuno per quelli tardivi. Penso comunque che, se riuscissimo a tornare tutti insieme da questo evento, potrei invitare gli amici italiani a bere la bottiglia di vino, salvandomi così dall'onta di lasciarla chiusa.
Infatti la storia della bottiglia di vino è diventata come un tarlo che continua a rodermi: si vede proprio che nei rari momenti in cui non si hanno problemi sentiamo il bisogno di crearcene di artificiali.
Affronto di nuovo il discorso con Silvana: - Pensa che brutta figura! Ho lasciato la bottiglia di vino chiusa. Che cosa penseranno trovando anche i due bicchieri puliti? -
- Potevi bere da tutti e due bicchieri. - suggerisce malignamente Silvana.
- Già, ma uno dei due doveva essere sporco di rossetto! - insinuo, viscido.
- Il mio rossetto non macchia. - risponde lei candidamente.
Al che io aggiungo, esasperato: - E poi la bottiglia me l'hanno regalata! Che figura ci faccio a non aprirla nemmeno? -
- Sì, te l'hanno regalata...! - mi canzona Silvana e aggiunge un lapidario: - Pover'a tté! -
A questa risposta scoppio a ridere, ma resterò sempre col dubbio che la bottiglia mi sia stata offerta per qualche strano incomprensibile motivo: in fondo i cioccolatini che lasciano la sera sul cuscino non sono regalati?
Dopo il coffee break decidiamo di seguire una sessione di papers intitolata "Handy user interfaces", in cui si tratta appunto di un tipo di interfaccia col calcolatore basata sull'uso di entrambe le mani. L'aula è la Centennial IV, cioè la porzione di destra del grande salone dell'inaugurazione, che è stato nuovamente diviso con enormi pannelli scorrevoli. La sessione è divisa in tre interventi con ben undici persone diverse, il che rende più difficile il nostro compito di uditori, che dobbiamo adattarci alle varie pronunce, anche se, onestamente, qualcuno non apre assolutamente bocca. Tutto sommato questa sessione si rivela una mezza delusione, ma comunque riusciamo a cavarcela e arriviamo felicemente all'una, l'ora del lunch.
Fermi nel nostro proposito di non mangiare, propongo di uscire a piedi, approfittando della bella giornata di sole, per fare qualche acquisto al volo. Sono infatti torturato dal pensiero dei souvenir che non ho ancora fatto. Silvana è un po' recalcitrante , ma poi mi accompagna. La verità è che Ermanno ed il fratello sono stati carenti nell'assolvere il loro compito: Silvana non ha saputo le misure precise dei loro jeans, quindi è fermamente decisa a non comprare nulla.
Vicinissimo all'albergo c'è un supermercato con un'insegna che promette souvenir e t-shirt. Entriamo, ma non troviamo assolutamente nulla di tutto ciò. Aggirandomi però tra gli scaffali, mi imbatto nella zona dei medicinali e subito individuo le pillole di vitamina E 1000 che mi ha chiesto la mia amica Stefania. Ce ne sono solo tre scatole e le prendo tutte. A Silvana che mi guarda incuriosita spiego che queste vitamine le usa una mia amica perché mantengono la pelle giovane. Aggiungo anche: - Peccato che ce ne siano solo tre. Speriamo che bastino! -. A questa frase Silvana replica, acida: - E che diavolo! Questa tua amica vuole diventare bambina? -. Al che io rispondo galante: - Perché tu, che sei ancora bambina, infierisci contro chi non lo è più? -, ma in cuor mio mi si accappona la pelle pensando all'innata malignità delle donne nei riguardi delle altre rappresentanti del loro sesso.
Nel frattempo si è quasi fatta l'ora degli interventi pomeridiani e ci avviamo verso l'albergo. Io sono molto contento perché ho assolto ad un altro dei miei impegni; ora resta un pensierino per Anna Maria e per i nipotini Stefano ed Elena.
Come prima sessione, quella delle due e mezza, scegliamo un panel, intitolato "Transferring a Designed User Experience to Product", dove si dibatte su come realizzare un prodotto coerente dagli elaborati di vari progettisti di software: molto fumo, arrosto poco.
Poi si va al coffee break, dove questa volta mi sbizzarrisco con varie acque minerali super-gasate, e poi prendiamo posto per tempo nel salone centrale Centennial II / III per l'attesa tavola rotonda "Web Interfaces Live: What's Hot, What's Not?" a cui partecipa tra l'altro Jakob Nielsen della Sun, che è uno dei mostri sacri più conosciuti dagli addetti ai lavori. La tavola rotonda inizia ed uno dei partecipanti, indicato pomposamente come Web Jockey, comincia a navigare in diretta sulla rete, praticamente a rampazzo. I mostri sacri commentano dando prova di grande acume ed umorismo (almeno nelle loro intenzioni); viene visualizzata ad esempio una pagina della CNN, che non è altro che un indice che rimanda ad una serie di notizie in diretta. Ovviamente ogni riga dell'indice è sottolineata, perché rappresenta un link ad altre pagine; vedendo questo uno dei tromboni sul palco se ne esce con questa battuta (tradotta per comodità del lettore): - è tutto sottolineato, quindi è tutto importante! -. Il pubblico comincia a rumoreggiare, fino a che un tizio si alza e dice, più o meno: -Sono perplesso. Quand'è che succede qualcosa? - . Concordo in pieno, anche se la scarsa padronanza della lingua mi consiglia di stare prudentemente zitto, cosa che faccio con grande fatica e disappunto. Comunque pensa a parlare per me Ben Shneiderman, altro famoso personaggio, professore della Università del Maryland, che oggi sta tra il pubblico. Si tratta di un uomo di bassa statura con una gran barba da marinaio, che lo rende simpatico a prima vista; inoltre è arguto e pungente e la sua pronuncia è chiara e le parole perfettamente scandite. è un piacere ascoltarlo, soprattutto quando mette alla berlina i tromboni sul palco. Questi ultimi cercano di darsi una regolata, ma appare chiaro che il loro intervento era miseramente improvvisato.
Sono finalmente le sei e possiamo uscire. Abbiamo un mezzo appuntamento con Maristella e Francesca Costabile alle 19,30 per andare insieme al ricevimento ufficiale nello SciTrek, ma sia Silvana che io abbiamo delle discrete riserve mentali. Io in particolare non l'ho ancora detto, ma ho già pensato ad un altro ristorante per la cena.
Saliamo in camera per toglierci definitivamente gli abiti formali: se dovessimo fare in tempo per il ricevimento, dovremmo cambiarci di nuovo. Poi prendiamo la macchina ed usciamo nel bel pomeriggio di sole, diretti anche stasera verso Lenox Square. Durante il tragitto intavolo timidamente l'argomento dei regali per il fidanzato e per il fratello di Silvana. - Allora! Che cosa hai pensato di regalargli? - chiedo mellifluo.
- Assolutamente niente - risponde Silvana, tutta d'un pezzo.
- Ma tu ti immagini come rimarranno male quei due poveracci? -
- Peggio per loro! Così imparano - infierisce lei, ed un brivido gelido mi corre lungo la schiena, tanto che decido di non parlarne più, abbandonando così i miseri al loro destino.
Mentre percorriamo la lunga strada verso Lenox Square, noto con la coda dell'occhio in una traversa sulla destra la scritta a caratteri cubitali "Sports Authority". Inchiodo la macchina e mi fiondo nella via laterale, dove si apre il solito ampio parcheggio di fronte al basso edificio del negozio. Si tratta di una catena di grandi magazzini esclusivamente dedicati agli articoli sportivi, che mi avevano indicato per la prima volta a Boca Raton in Florida, quando avevo chiesto di un posto per acquistare degli articoli da pesca. Questo "Sports Authority" di Atlanta in effetti è identico a quello di Boca Raton: è come un enorme supermercato dove i vari corridoi paralleli non sono dedicati ai formaggi o alla pasta o allo scatolame, ma ciascuno ad uno sport diverso. E vi si trova veramente di tutto.
Mi aggiro per gli scaffali incantato, guardando anche gli splendidi oggetti degli sport che non ho mai praticato, ma poi, vedendo che Silvana non sembra affatto entusiasta, mi dirigo verso il reparto pesca, che è poi quello che intendevo visitare quando sono entrato. Silvana naturalmente non perde l'occasione per farmi notare che anch'io perdo tempo in mezzo alle cose che mi piacciono, guardando anche ciò che non devo comprare, esattamente come fa lei in mezzo alle confezioni. Devo ammettere che è vero, ma vuoi mettere la bellezza di un coltello da campeggio o di un mulinello da traina o di un bastone da golf, di fronte alla scoraggiante banalità di pezze tutte uguali, informi, bianche, colorate, da mettersi addosso solamente per proteggersi dal freddo o, se fa caldo, perché sta male girare nudi? Questo ragionamento non convince Silvana, che anzi lo considera un'ulteriore prova dell'inferiorità del mio sesso. Io, con perfetto parallelismo, ritengo invece che il fatto che Silvana preferisca le pezze sia una prova dell'inferiorità del suo. A questo punto ritengo più prudente troncare la discussione, dedicandomi rapidamente agli acquisti per cui sono entrato: sei stupendi pesciolini artificiali per la traina, tre dei quali regalerò a Michele, un borsello da escursione, che regalerò a Giuseppe, ed un bellissimo coltello a serramanico stile vecchio West, che regalo a me stesso in sostituzione del coltello di San Francisco maldestramente perduto a mare l'estate scorsa. Molto soddisfatto degli acquisti, lascio rapidamente Sport Authority perché vedo Silvana piuttosto scalpitante. Fosse stato per me, sarei rimasto là dentro tutta la serata.
Arriviamo finalmente a Lenox Square dove ci aggiriamo per i vari negozi, ma senza comprare niente. Io individuo persino un "Circuit City", negozio di una catena di articoli elettronici anch'essa diffusa in tutti gli U.S.A., ma è molto piccolo e non trovo niente di interessante; nemmeno un telefonino né la batteria per il mio telefonino vecchio.
Si fa finalmente ora di cena e ci mettiamo in macchina per tornare verso Atlanta. Silvana vorrebbe andare in un ristorante indiano, ma io propongo il locale a cui avevo pensato nel pomeriggio, scelto sempre dall'elenco trovato su internet. Ovviamente nessuno pensa più al ricevimento ufficiale della conferenza, anche perché l'orario del mezzo appuntamento è passato da un pezzo.
Il ristorante scelto si chiama French Quarter Food Shop e di esso le notizie internet parlano molto bene: c'è cucina creola, cioè di New Orleans, anche se l'aspetto del locale è piuttosto dimesso. Lo troviamo facilmente, perché sta proprio sulla solita Peachtree Street, ed in verità l'aspetto, più che dimesso, è decisamente squallido, tanto che, se le mie fonti non avessero dato un giudizio così buono sulla qualità del cibo, non ci sarebbe mai venuto in mente di entrare. Nel piccolo spiazzo davanti al locale ci sono già le macchine di alcuni avventori in mezzo a cui spicca un'auto della polizia con la sgargiante scritta "Sheriff". Il locale è poco più di una baracca di legno di un sol piano con una grande vetrata che dà sulla strada. Ci avviciniamo ad una porta, ma ci accorgiamo in tempo che si tratta della cucina e subito torniamo indietro. Al secondo tentativo imbrocchiamo l'ingresso che è sul lato opposto al parcheggio. La sala è pavimentata con assi di legno grezzo e le sedie ed i tavolini sono pure di legno. Tutto ha un sapore di vecchio e di provvisorio nello stesso tempo: si ha la sensazione che quel posto abbia conosciuto tempi migliori. In fondo alla sala c'è il bancone del bar con i classici sgabelli alti, su uno dei quali è seduto lo sceriffo della macchina di fuori: è bianco ed indossa il classico cappello largo da cowboy, che abbiamo visto nei film western. Non mangia, ma sorseggia una bevanda ambrata da un grosso bicchiere: mi piace immaginare che sia whisky. Prendiamo posto in un piccolo tavolo per due proprio al centro della sala e subito veniamo raggiunti da una ragazza sorridente. Ad un tavolo accanto alla finestra sono seduti due negri enormi, più larghi che alti. La ragazza ci porge il menu e ci lascia per darci modo di scegliere con calma. Sulla tavola non c'è tovaglia, ma solo una tristissima incerata a fiori; spero proprio che il sito internet dei ristoranti non mi abbia giocato un tiro mancino.
Comunque sul menu sono elencati i piatti tanto decantati su internet, quindi ordino, e consiglio a Silvana di fare la stessa cosa, due piatti che avevano colpito la mia fantasia. Per fortuna sua Silvana questa volta si lascia guidare. Come entrée prendiamo una ètouffée di gamberi in salsa piccante e come main course un fritto misto di pesce, granchio, gamberoni e zampe di rana. Da bere per me la solita birra scoperta da The Abbey e per Silvana la solita acqua liscia. I gamberi in salsa piccante sono accompagnati da riso in bianco che rende possibile mangiarli, stemperando la paprica che è molto più forte del nostro peperoncino. Il granchio del piatto principale è semplicemente divino, mentre i gamberi ed i pesci-gatto sono di tipo prettamente oceanico, cioè un po' insipidi. Nel complesso però mangiamo veramente bene, come promesso dal sito internet e come mai avremmo immaginato vedendo il posto.
Sulla via del ritorno, mentre percorriamo in macchina gli ultimi cinquecento metri verso l'albergo, vedo sull'altro marciapiede Maristella, Francesca Costabile ed il signore della Fondazione Bordoni che stanno tornando a piedi dal ricevimento ufficiale. Li saluto da lontano gesticolando dalla macchina ed urlando: - Maristellaaa! -. Arriviamo nell'atrio quasi contemporaneamente a loro. Noto che sono certamente più depressi di noi e mi congratulo con me stesso per l'ottima scelta di aver saltato l'impegno ufficiale in cambio di una più ruspante serata nel ristorante creolo. Infatti mi confermano la pallosità e la confusione della cena allo SciTrek, mentre noi non ci stanchiamo di decantare le virtù dei nostri gamberi e del granchio. In tutto questo mi dimentico completamente del vino che volevo offrire all'allegra compagnia.
Me ne ricordo purtroppo poco dopo, quando, rientrando in camera, rivedo la bottiglia, scenograficamente adagiata sotto il faretto, con i bicchieri intatti come li avevo lasciati. Comincio a temere che non riuscirò ad aprirla, ma poi, come è giusto, mi rassereno pensando che ho ancora un giorno e mezzo, una piccola eternità. E con questo pensiero mi addormento.

Il secondo giorno della Conferenza

Mercoledì 26 marzo 1997

Oggi è la giornata centrale della Conferenza, quella con gli interventi più importanti e più attesi. Per molti è anche l'ultima giornata, come per Francesca Costabile, che partirà per l'Italia nel primo pomeriggio.
Non facciamo colazione, secondo l'abitudine corrente, e alle nove siamo seduti puntualmente nella sala grande Centennial II / III, dove si terrà l'attesissima tavola rotonda "Intelligent Software Agents vs. User-Controlled Direct Manipulation: A Debate". Si tratta in effetti di un dibattito tra due persone con un moderatore, Jim Miller della Apple; le due persone sono Pattie Maes, del MIT, favorevole agli agenti software, e Ben Shneiderman, il professore con la barba da marinaio, che è contrario. Pattie Maes è una giovane ricercatrice, di aspetto fine e delicato, piuttosto carina, con in più il grande pregio di parlare un inglese perfetto con una pronuncia chiarissima. Io commento dicendo che a Boston, dove ha sede il Massachusset Institute of Technology, si parla meglio che nel Far West, ma scopriamo che Pattie Maes è belga, e questo spiega tutto. Pattie descrive alcuni agenti, come quello di posta, che esegue operazioni automatiche sulla posta internet, e Ben Shneiderman la contraddice puntualmente, dicendo che quelli in fondo non sono che programmi con in più il difetto di non avere un'interfaccia utente che serva a controllarli. Alla fine il match può considerarsi pari: quello che ci rimane è soprattutto il piacere di aver assistito ad una discussione interessante, garbata e, cosa che non guasta, intelligibile.
Dopo il solito coffee break andiamo nell'aula internet, dove ci sono una ventina di terminali collegati alla rete, dove ognuno può andare a sfogliare la propria posta. Naturalmente i posti sono tutti occupati e siamo costretti a metterci in una tipica coda anglosassone. L'aula è a forma di piccolo anfiteatro e dall'alto dell'ultima fila di banchi le persone in coda dominano tutta la scena e riescono pure a vedere i video dei più fortunati che stanno già lavorando. A mano a mano che un posto si libera, il primo della fila corre ad occuparlo. Alla fine arriva il turno mio e di Silvana, che preferiamo occupare un solo posto.
L'attesa per l'internet fa sì che arriviamo in ritardo all'intervento che abbiamo scelto per la seconda metà della mattinata, il panel "Bringing User into Design", che si tiene nella Centennial I. Questa presentazione, che parla appunto di progettazione e sviluppo di applicazioni, è divisa in tre parti, in una delle quali parla un certo John Karat della IBM, che Silvana dice di conoscere. In effetti è proprio questo il motivo per cui ha scelto questo intervento, ed io l'ho seguita. Senonché la presentazione di Karat, che doveva essere la seconda, per motivi contingenti è stata spostata al primo posto e noi, che siamo in ritardo, non riusciamo a vederla. John Karat è però seduto sul podio ed io lo individuo subito (ci sono i cartelli con i nomi). Si tratta di un signore di mezza età semi-calvo, con una barba a pizzo che gli conferisce un aspetto vagamente diabolico, attutito solo dal fatto che i capelli non ancora bianchi sono biondi.
Lo indico a Silvana, ma lei dice recisamente: - Non è lui! Me lo ricordo bene. -
Mi sembra strano, ma, non avendo alcun elemento in contrario, debbo pensare che Karat sia stato sostituito all'ultimo momento dal signore con la barbetta.
Durante l'intervallo del lunch, che come al solito saltiamo, usciamo di nuovo a cercar negozi. Di fronte all'albergo ci sono tre grandi edifici collegati fra di loro da avveniristiche gallerie sospese, che una delle tante cartine che ho recuperato indica rispettivamente come Merchandise Mart, Gift Mart ed Apparel Mart. Il mio povero inglese mi suggerisce che siano dei mercati (mart sta per market) dove si vendono appunto merci varie, doni ed articoli di abbigliamento; e in effetti la traduzione letterale è questa. Invece entriamo nel primo edificio e troviamo solo una serie di enormi e pomposi saloni vuoti; lo stesso avviene negli altri "mart", dove arriviamo attraverso le gallerie sospese. Dopo aver camminato per un po' guadagniamo l'uscita e, visto che con quest'inutile ricerca abbiamo bruciato tutto l'intervallo, ritorniamo in albergo.
Per la prima metà del pomeriggio scegliamo un'altra tavola rotonda nella sala grande Centennial II / III, intitolato "What's Really Essential in HCI Education", che tratta problematiche di istruzione nel campo delle interfacce uomo macchina. Il vero motivo della scelta, operata in realtà da Silvana, è che tra i quattro oratori c'è ancora quel John Karat, che ella pretende di conoscere. Disgraziatamente si presenta nuovamente l'uomo vagamente mefistofelico con la barbetta a punta, che Silvana non conosce affatto, ma questa volta, per sua disgrazia, riusciamo a leggere chiaramente il badge che egli indossa ben visibilmente, come tutti i partecipanti alla conferenza. Il guaio (per Silvana) è che il badge recita a chiare lettere: "John Karat - IBM Thomas J. Watson Research Center". Delle due l'una: o si tratta di un impostore o Silvana non si ricorda un accidente. Preferisco optare per la seconda ipotesi ed ho perfino l'ardire di contestarle l'errore. Ovviamente Silvana difende la sua causa persa con tipica protervia femminile. E pensare che sono io che le ho insegnato che in certe occasioni bisogna negare anche l'evidenza! Ma, si sa, gli alunni superano sempre i maestri. Alla fine preferisco troncare elegantemente la discussione, anche se devo dire (e questo va tutto a onore di Silvana) che l'ombra del dubbio è stata abbondantemente visibile nei suoi occhi.
Scendiamo al coffee break. Guardo le numerose tavole imbandite ed ho un moto di gioia: ci sono delle splendide bombe alla crema fritte! Ma purtroppo si tratta del classico miraggio, dovuto in parti uguali alla mia miopia ed alla lunga astinenza; Silvana, spietata, stronca immediatamente ogni mia illusione: - Ma che bombe! Non vedi che sono panini, e duri per di più! -. In effetti, ad un esame più accurato, gli oggetti sferici ammucchiati sui vassoi si rivelano come dei panini piuttosto sinistri: probabilmente sono fatti senza lievito, perché il loro peso specifico si avvicina a quello del piombo. Ma gli organizzatori del convegno, con la loro inesauribile fantasia, hanno disposto tutt'intorno una grande messe di vasetti di marmellata e di burro ed in più hanno fornito ogni tavolo di uno strano oggetto, simile ad una ghigliottina tascabile, che consente in un sol colpo di tagliare il panino a metà per imbottirlo. Inutile dire che anche questa volta preferisco dedicare le mie attenzioni al tè al limone ed all'acqua minerale.
Per terminare la seconda giornata della conferenza scegliamo una presentazione classica: "Enhancing The Direct Manipulation Interface", divisa in tre interventi, il primo dei quali proprio del barbuto Ben Shneiderman, che in particolare presenta un prototipo realizzato presso il suo laboratorio dell'Università del Maryland, le "Elastic Windows". La novità di queste finestre elastiche è questa: mentre le normali finestre dei sistemi operativi di uso corrente (tipo Macintosh, OS/2 , Windows) sono indipendenti fra di loro, quelle di Ben Shneiderman sono collegate; cioè se ne allargo una, si stringono quelle adiacenti, mentre nei sistemi tradizionali vengono ricoperte da quella che si è allargata. In verità la presentazione non la fa Ben, ma un suo allievo emozionatissimo, che quasi balbetta davanti al suo professore seduto in prima fila con un sorriso paterno sotto la barba. Comunque riesce a cavarsela e tutti tiriamo un sospiro di sollievo.
Subito dopo arriva una tizia di mezza età proveniente dall'Oregon State University con una sua strana presentazione, di cui riusciamo a capire ben poco, e che viene anche criticata in diretta da Ben Shneiderman. La professoressa del Far West, che è anche vestita in maniera stranissima, a metà tra pioniera della pista dell'Oregon, appunto, e nonna Papera, risponde in maniera poco convincente, ma Ben preferisce non infierire, limitandosi ad applaudire dopo l'intervento lungamente, anche dopo che tutti gli altri hanno smesso.
E così finisce anche la seconda giornata ed inizia la nostra ultima sera ad Atlanta. L'angoscia dei regali però continua e quindi partiamo subito in macchina lungo Peachtree Street verso i centri commerciali del nord. Questa volta però ho deciso di acquistare per prima cosa un oggetto per me: la batteria del telefonino. Infatti questi telefonini a cento dollari, di cui vaneggia Maristella, non li abbiamo trovati; quindi preferisco risolvere il problema in modo più economico. Sulle pagine gialle di Atlanta (sono gialle anche là e si chiamano persino "yellow pages") trovo l'indirizzo di un venditore di cellulari su Peachtree Street e ci arrivo a colpo sicuro. La batteria che mi serve c'è, anche se è un modello piuttosto vecchio, e la compro anche se costa più di 40 dollari e non risparmio molto rispetto all'Italia.
Sistemato il telefonino, proseguiamo per quello che è ormai il nostro centro commerciale preferito: Lenox Square. Qui Silvana continua a guardare pezze per sé, anche se, a dire il vero, non si decide a comprare niente. Io invece trovo dei simpatici contenitori profumati, alcuni pieni di piume, altri di schegge di legno di sandalo, altri di petali di fiori secchi, altri ancora di bucce di frutti tropicali. Ognuno ha il profumo delicato ma persistente del suo contenuto. Ne scelgo uno per regalarlo ad Anna Maria, ma poi penso che Carmen potrebbe sentirsi trascurata e ne prendo un altro per lei. Anzi ho un lampo di genio: dirò a Carmen di scegliere quello che le piace di più, lasciando l'altro ad Anna Maria. Sono fiero della mia idea diabolica e la comunico a Silvana, che approva con una certa ammirazione nei miei riguardi per i rapidi progressi che sto facendo, stando a contatto con lei. Comunque devo dire, a onor del vero, che il secondo contenitore profumato, al mio ritorno a Napoli, sarà destinato a Franca, la sorella di Carmen che sta in Sardegna, di cui mi ero imperdonabilmente dimenticato.
Sono soddisfatto: mancano solo i pensierini per i nipotini Stefano ed Elena e poi ho finito. Ma per quanto cerchi nell'immenso centro commerciale, non trovo niente che mi ispiri. Penso che prenderò due belle magliette con la scritta "Atlanta", che ho visto nel negozio dell'albergo. Intanto si è fatta sera e dobbiamo decidere dove andare a mangiare. Le scorse sere, tornando verso l'albergo, avevamo notato un ristorante dall'allegro nome "Cheesecake Factory", cioè "Fabbrica di dolce di formaggio (di New York)", che è uno dei miei dolci preferiti in America. Propongo a Silvana di andarci e lei approva. Senonché, arrivati sul posto, troviamo una folla terribile, gente che aspetta in piedi e macchine in fila in attesa che si liberi un posto nel parcheggio. Ovviamente preferiamo rinunciare.
Cominciamo a girare per trovare qualcuno dei ristoranti il cui nome ricordo a memoria, ma non ne vedo nessuno. Mi butto in una via laterale dove Silvana vede un locale e mi indica di andarci. Si tratta di una bellissima villa in classico stile georgiano, circondata da un bel parco con i soliti alberi fioriti. Nel parcheggio ci sono tutte automobili rispetto alle quali la nostra Ford Sentra celeste fa la figura di una macchina di pezzenti e sulle scale esterne della villa sta salendo gente elegante. Leggo il nome del locale e mi ricordo di averlo visto sul libro dell'albergo indicato come il più esclusivo ristorante di Atlanta. Silvana ed io ci guardiamo in faccia e senza proferire parola giriamo la macchina e ce ne andiamo.
A onor del vero devo dire che l'unica mia preoccupazione era stata la mancanza dell'abbigliamento adatto. Comunque mi rivolgo verso Silvana e l'apostrofo: - Caspita! Che occhio che c'hai! Hai scelto proprio il miglior ristorante della zona. Complimenti! -
Resta comunque il problema della cena. Continuiamo a vagare lungo Peachtree Street, quando mi ricordo del ristorante "Fratelli di Napoli", il cui nome mi aveva colpito due sere fa. Mi giro verso Silvana e le faccio: - Che dici? Come ultima sera non potremmo andare in un ristorante italiano? E poi "Fratelli di Napoli" è un nome che mi ispira -
- Sei sicuro? - risponde lei - Hai sempre detto che non ti piace la cucina italiana fuori d'Italia. E poi critichi sempre quelli che non sanno fare a meno dei loro spaghetti quotidiani! -
- E va bene, ma io mica voglio ordinare la pasta! - insisto con pervicacia - E poi, scusa, proviamo com'è la cucina italiana ad Atlanta! Ho provato quella del ristorante "Pasquale's" di San José e non mi sono trovato male. Basta saper scegliere. Lì c'era un cuoco francese che aveva lavorato in Piemonte e faceva degli ottimi ravioli, anche se una sera Giuseppe si impuntò e volle prendere per forza delle linguine ai frutti di mare che non sapevano di mare, ma di salvia, timo, rosmarino e di chissà quali spezie che ci avevano messo. -
Silvana evidentemente ha molta fame, perché si lascia convincere dalla mia filippica. Quindi mi avvio senz'altro verso il punto di Peachtree Street dove ricordavo di aver visto l'insegna rossa al neon "Fratelli di Napoli". La ritrovo subito, ma ho un po' di difficoltà a trovare il ristorante. Si deve scendere infatti in una traversa laterale piuttosto buia e malmessa, dove mi fermo perplesso temendo di aver sbagliato strada. Ma veniamo subito raggiunti dal parcheggiatore del ristorante, che prende subito in consegna la macchina. Entriamo in uno stretto portoncino e saliamo una rampa di scale; ci troviamo subito immersi nella sala principale del locale che è un vero bailamme. Si tratta di un salone piuttosto ampio, ma completamente riempito soprattutto da lunghe tavolate di gente che urla smodatamente. Ci sono soltanto due o tre tavoli piccoli, uno dei quali viene assegnato a noi. Appena seduti subito arriva un giovane cameriere che ci porta la lista, i classici bicchieri d'acqua con ghiaccio (più ghiaccio che acqua), il pane e, al posto del burro, un piattino con olio d'oliva, aceto e sale. Questa infatti è una caratteristica di tutti i ristoranti italiani in America; l'olio d'oliva viene infatti giustamente considerato una cosa italianissima ed è sempre di qualità ottima. Ricevuta la lista, poiché indosso le lenti a contatto, scopro di non riuscire a leggerla; potrei farmi aiutare da Silvana, ma, piuttosto che fare la figura del cieco, preferisco correre in macchina a prendere gli occhialini per vedere da vicino, che devo usare quando le lentine mi trasformano, purtroppo, da miope a presbite.
Finalmente leggiamo con attenzione la lista e preferiamo saltare a piè pari i piatti a base di pasta, perché abbiamo il fondato timore che venga servita scotta. Io decido che come antipasto prenderemo un piatto misto di verdure alla griglia, Silvana invece sceglie il piatto principale: gamberoni alla parmigiana; inoltre, poiché non vedo birre nella lista, ordino per me un bicchiere di Chianti, venduto a peso d'oro. L'ordinazione non è indolore, perché ogni volta che chiediamo una cosa per due ci guardano come bestie rare e attaccano una tiritera pressoché incomprensibile. Con grande sforzo riusciamo a capire che le porzioni sono già per due e che quindi non dobbiamo mai ordinare due porzioni, che diventerebbero quattro, ma solo una. Io, preso dall'entusiasmo, arrivo ad affermare che comunque non avremmo avuto problemi anche a mangiare il doppio. In tutto questo chiedo anche al cameriere dove sono i fratelli di Napoli ed egli mi risponde che non ci sono più: - Hanno lasciato il locale da tanto tempo -
Non soddisfatto insisto: - Ma il cuoco è napoletano o almeno italiano?-
- No, tutti americani. - risponde il cameriere, con tono definitivo.
Mentre aspettiamo ci mettiamo a mangiare pane e olio e notiamo con una certa perplessità che in mezzo al pane ci sono anche due pezzi di pizza; la perplessità deriva dal fatto che essi hanno uno spessore di circa sette centimetri. Poi finalmente arrivano le verdure, che si rivelano subito una grande delusione: le melanzane e gli zucchini sono praticamente crudi, quindi immangiabili (almeno al mio paese), e poi ci sono dei peperoni verdi piccanti messicani, una cipolla cruda intera, olive greche ed altri oggetti non meglio identificati. Scarto melanzane e zucchini e mangio la cipolla cruda in un sol boccone e quasi mi va per traverso. Poi, con grande sprezzo del pericolo, ingoio uno dei peperoncini e a quel punto capisco che devo fermarmi. Silvana l'ha già fatto da tempo.
Speriamo di essere più fortunati col piatto principale. Arriva il cameriere che, gentilissimo, ci chiede come mai abbiamo lasciato quasi tutto: forse non ci è piaciuto? Per non farlo dispiacere rispondiamo che era tutto buono, ma era tanto, troppo. Silvana naturalmente non perde occasione per redarguirmi: - E pensare che ne volevi prendere due porzioni! -
Nel frattempo il cameriere deposita sul nostro tavolo un enorme vassoio ovale di acciaio con dentro delle strane forme ricoperte di un dito di salsa di pomodoro. Devono essere i gamberoni alla parmigiana. Impallidiamo, ma con molta buona volontà ci serviamo qualche pezzo. In effetti sono gamberoni, perché guardando bene la forma è quella, però hanno la consistenza della suola di scarpa e sono orribilmente coperti di una pessima salsa di pomodoro e di un sinistro formaggio fuso, che dovrebbe ricordare, ma senza riuscirci affatto, la nostra mozzarella. è veramente troppo. Riesco ad ingoiare qualche boccone con l'aiuto del Chianti e dichiaro: - Basta così! Lo lascio. -
Silvana, che non ha neanche il Chianti per farsi aiutare, mi segue a ruota. Neanche al ristorante cambogiano di San José, dove andai per la cena di addio coi colleghi della IBM, mi era capitato di non mangiare quasi nulla. Si vede che sono sfortunato con le ultime cene!
Per non far dispiacere il solerte cameriere schiacciamo alla meglio i gamberoni rimasti nel vassoio, secondo una tecnica imparata da mia figlia Cinzia, che da piccola, quando non voleva mangiare, schiacciava il cibo nel piatto, "per farlo sembrare di meno". Poi però, per non sentirci troppo in colpa ed anche perché non abbiamo mangiato niente, ordiniamo il dolce; io naturalmente mi butto su una fetta di New York cheesecake, che si rivela un vero mattone, mentre Silvana, più saggia, ordina un tiramisù, che, a suo dire, si rivela come la cosa migliore di tutta la cena.
Serata davvero catastrofica dal punto di vista culinario. Non così dal punto di vista del divertimento, perché in quell'ambiente da caricatura di ristorante italiano tutto ci fa ridere: dall'avidità con cui i commensali degli altri tavoli si cibano di improbabili linguine ricoperte di strani condimenti, alla lista delle pietanze riportata su un tabellone sul muro, metà in inglese e metà in uno strano italiano, un po' dialettale un po' semplicemente sgrammaticato. Tutto sommato, usciamo dal locale abbastanza rintronati per il chiasso della sala, ma, a parte il peso sullo stomaco, contenti e rilassati.
Il ristorante "Fratelli di Napoli" però non la passerà liscia. Tornato a Napoli invierò tramite internet il mio giudizio negativo, che ora fa bella mostra di sé sul sito http://www.dine.com/atlanta/. Provare per credere.
Tornati in albergo, sono così distrutto che mi dimentico un'altra volta del vino: e pensare che questa sarebbe proprio l'ultima occasione! Evidentemente è destino che la bottiglia rimanga chiusa.
Ci salutiamo ed andiamo subito a dormire: domani si parte e, ahimè, dobbiamo ancora fare le valigie.

Ritorno in Italia

Giovedì 27 e venerdì 28 marzo 1997

Oggi si parte. Nel pomeriggio abbiamo il volo per Washington e poi, dopo meno di due ore il volo intercontinentale per Milano. I bagagli sono pronti; tolgo il passaporto ed i biglietti aerei dalla cassaforte elettronica della camera e scendo a saldare il conto prima delle otto, per evitare il prevedibile affollamento. Oggi infatti è l'ultimo giorno della conferenza e tutti andranno via: la grande kermesse sta per concludersi.
Silvana mi raggiunge poco dopo, paga anche lei il conto e poi decidiamo di concederci una bella prima colazione all'americana al solito ristorante Kafe Köbenhavn nella hall. Infatti dopo questo ci aspettano i pasti sull'aereo e passeranno almeno ventiquattro ore prima di un altro pasto regolare. Per me, che devo partire subito per la Sardegna, le ore saranno quarantotto.
Subito dopo colazione andiamo nel negozio dell'albergo dove compro finalmente le due magliette per Stefano ed Elena: con questo i regali sono tutti fatti. Per completare i riti turistici consegniamo al portiere le cartoline che abbiamo scritto perché le spedisca in Italia. Poi usciamo a piedi per fotografare la vecchia macchina americana incastrata come insegna sul muro d'angolo del vicino Hard Rock Cafè e cerchiamo di spingerci verso nord per fotografare il nostro albergo in tutta la sua altezza da lontano. Ma evidentemente sbagliamo strada, perché invece di ritrovarci sulla solita Peachtree Street, arriviamo in una piazza mai vista prima e, poiché si è fatto ormai tardi, decidiamo di tornare in albergo. L'unica cosa notevole che riusciamo a vedere è una lapide su un vecchio edificio di pietra, che ricorda l'incendio di un antico albergo di Atlanta, avvenuto all'inizio del secolo, ed in cui morirono un centinaio di giovani venuti qui per una cerimonia di premiazione.
Abbiamo qualche difficoltà a scegliere la presentazione da seguire stamattina, perché gli interventi descritti nel programma sono tutti di livello medio basso: i personaggi più importanti se ne sono già andati ieri e l'aria di smobilitazione è più che evidente. Alla fine ci decidiamo ad assistere ad una sessione di demo, cosa che non avevamo mai fatto sino ad ora. Il titolo è "Visual Techniques for Image Retrieval" e si svolge nella sala Regency IV accanto al salone principale. In realtà ci sono due demo presentate da un oratore in maniera formale: la prima da un giapponese della NEC, che mostra un prodotto ad oggetti per la ricerca di immagini, la seconda da una tizia di una certa Derby University, che dimostra un prodotto chiamato Divius, che consente di trovare dei vasi e delle coppe in un database semplicemente fornendo al sistema uno schizzo approssimativo della forma del vaso. La prima delle due presentazioni è assolutamente indolore e passa senza lasciare traccia; la seconda invece è abbastanza interessante, ma la presentatrice parla con voce talmente flebile che si fa fatica a sentirla. Fa fatica anche l'addetto alle luci, che non sente quando la tizia chiede di abbassare o alzare l'illuminazione della sala e quella insiste trasformando il pigolio in una specie di lamento, quasi stesse per piangere. La cosa ci mette molto di buon umore e trasforma una mattinata mediocre in una mattinata divertente.
Terminata la sessione di demo, decidiamo di partire subito, senza fare il coffee break e senza seguire un secondo intervento nella mattinata. Infatti dovremmo comunque lasciarlo a metà perché l'aereo per Washington parte intorno alle tre. Quindi saliamo in camera e con le valigie ci troviamo al garage, dove ritiriamo la macchina per l'ultima volta. Usciamo e abbiamo un'oretta da perdere prima di avviarci verso l'aeroporto. Prendiamo allora la solita strada verso nord e arriviamo oltre Lenox Square, per ammirare altre splendide ville in stile georgiano, che avevamo già notato in una delle scorse sere. Girando un po' per il centro troviamo anche la risposta ad un quesito che ci aveva tormentato sin dalla prima sera ad Atlanta: Wachovia è una banca! Ce ne accorgiamo vedendo gli sportelli self service per automobilisti, dove si possono fare le operazioni bancarie senza neanche scendere dalla macchina.
In tutto questo superiamo ampiamente mezzogiorno e dobbiamo immediatamente trovare la strada per l'aeroporto. L'unico modo è trovare le minuscole indicazioni col numero della freeway 85 ed imboccarla verso sud. Preso dalla fretta comincio a guidare anch'io nelle strade del centro alla maniera del vecchio sud, forte delle mie profonde competenze acquisite nelle vie di Napoli. In effetti me la cavo benissimo e dopo un po' riesco ad immettermi sulla strada giusta. Inoltre, proprio all'ingresso della freeway, Silvana, cui ho affidato la macchina fotografica, riesce ad imbroccare l'inquadratura con la silhouette degli alberghi, che avevamo cercato inutilmente al mattino. Resta così da scattare una sola foto nel rullino.
Con una discreta abilità riusciamo a vedere la freccia che indica l'aeroporto in prossimità di un bivio affollatissimo, dove un errore sarebbe potuto essere catastrofico, ed in breve arriviamo al campo della Hertz, dove restituiamo rapidamente la macchina, senza bisogno di fare benzina, perché abbiamo già pagato il pieno nel contratto. Lo shuttle ci porta verso i terminal e noi, ormai esperti conoscitori della lingua, anche se parlata da un autista di colore, scendiamo a quello giusto. Al check in ci liberiamo dei bagagli, che rivedremo a Milano, e ci tolgono anche i biglietti verdi dai passaporti. Senza i visti di immigrazione abbiamo ufficialmente lasciato gli Stati Uniti. Ci avviamo poi verso il treno sotterraneo dell'aeroporto, per raggiungere le sale di imbarco della United Airlines, che sono le più lontane. Quando arriviamo manca più di mezz'ora alla partenza, quindi ci sediamo nelle poltrone e aspettiamo pazientemente. Mentre stiamo lì, completamente oziosi, arriva un tizio con un mazzo di biglietti che sembrano dei santini; li distribuisce ai passeggeri in attesa. Qualcuno rifiuta, altri lo prendono; noi, non sapendo di che si tratti, rifiutiamo con ferma gentilezza. Dopo pochi minuti il tizio ricomincia il giro e riprende i biglietti da tutte le persone a cui l'aveva dato. Appena recuperati tutti i biglietti, se ne va con un vago sorriso ieratico sulle labbra. Rimpiango di non aver accettato l'immaginetta: forse avrei capito di che si trattava. Così invece sono rimasto con la curiosità.
Finalmente ci imbarcano. Dopo una breve attesa l'aereo rulla sulla pista e decolla. Lasciamo la Georgia. Mi è rimasta una diapositiva nela macchina: vorrei usarla per fotografare Atlanta dall'alto, ma non riesco a vedere quell'immagine che mi aveva colpito all'andata e mi aveva fatto esclamare: - Silvana, guarda! Quella è Atlanta. -
Non so perché, ma il volo per Washington sembra più breve che all'andata. Arriviamo, entriamo nel "bocchettone" e ci troviamo direttamente nelle sale d'imbarco. Dobbiamo percorrere solo un po' di strada a piedi per raggiungere l'uscita del volo United per Milano Malpensa. Al di là di un vetro si vede lo stretto cunicolo con la linea gialla e la linea viola, che avevamo percorso all'andata, quando non eravamo ancora entrati in America. Che strano! Ora ne siamo già usciti, eppure siamo dall'altra parte del vetro.
Saliamo finalmente sull'aereo per Milano: è uguale a quello dell'andata ed anche qui c'è lo steward italo-americano, ma non somiglia nemmeno al "pupo sul comò". Servono la cena: c'è la solita scelta tra due piatti diversi, uno dei quali è il pollo. Noi siamo seduti piuttosto indietro e quando le hostess arrivano da noi, c'è rimasto solo il pollo. Lo prendo a malincuore, perché è una delle poche cose che non mi piacciono, ma devo ricredermi: dato il basso livello di questi pasti sull'aereo, il pollo non è peggio del vitello dell'andata. Dopo mangiato non cominciamo nemmeno a vedere il film, ma cerchiamo di dormire. Stanotte recupereremo le sei ore di fuso orario perse all'andata, perciò la notte durerà per noi esattamente sei ore in meno. Alle otto e mezzo del mattino saremo a Milano, ma, per i nostri ritmi circadiani, ormai tranquillamente adeguati alla costa est degli Stati Uniti, saranno le due e mezzo di notte. Inoltre, a causa dei venti dominanti favorevoli a chi voli verso est, il viaggio durerà quasi due ore in meno rispetto all'andata.
Cerco di rilassarmi ed entro in una specie di dormiveglia. forse riesco anche a dormire un po', ma non ne ho coscienza. Improvvisamente, mentre continuo a sforzarmi di riposare, la luce del sole irrompe a fiotti dagli oblò e, come ad un inespresso comando, tutte le hostess cominciano a servire la prima colazione: succo d'arancia, plum cake e orrido caffè o tè a volontà. E pensare che abbiamo finito di cenare non più di tre ore fa!
Siamo sulla Francia mentre il giorno avanza e noi gli andiamo incontro. Sorvoliamo le Alpi, bianchissime di neve, tutte incise di valli e di ghiacciai, solcate a tratti da sottili linee scure, le strade o le ferrovie, piccole, come schiacciate dall'immensità delle montagne. Poi anche le Alpi scompaiono e cominciamo a scendere in una caligine sporca, come quando su una barca si lascia il mare cristallino del largo e ci si avvicina al porto. Mi viene in mente il pensiero di Renzo de "I promessi sposi" mentre dai suoi monti si avvicina a Milano: "L'aria gli par gravosa e morta..."
Sarà la stanchezza che comincia a farsi sentire, sarà la voglia di arrivare a casa il più presto possibile, ma comincio ad innervosirmi ed a chiedermi perché questo aereo debba portarci nel cuore della pianura Padana, sul fondo di un mare primordiale da tempo ritiratosi, invece di arrivare direttamente a Napoli, la capitale della cultura, della civiltà mediterranea, che compete alla pari con Londra o con Parigi, e non certo con squallide città di provincia, come Torino, capoluogo di un regno di montanari ignoranti, o Milano, centro di una provincia remota. Silvana deve sorbirsi le mie filippiche mattutine, mentre mi scaglio contro l'odioso avventuriero, lo squallido ladro di cavalli, al quale, proprio per questa sua colpa erano state tagliate le orecchie a Montevideo (donde i capelli acconciati a ridicolo caschetto), che con la sua azione aveva contribuito a distruggere un regno, il più progredito d'Italia, per cultura, tecnica e civiltà. E questo imbecille, il cui nome odioso e la cui ridicola figura dobbiamo sorbirci in tutte le piazze ed i corsi d'Italia, giustamente premiato con l'esilio a Caprera, fece questo solo per vincere la propria noia, per soddisfare la propria sete di avventura, spinto da due marpioni come il panciuto Cavour ed il barbuto Vittorio Emanuele, altri incubi della nostra toponomastica cittadina. Bella associazione a delinquere! Se non fosse stato per loro, oggi l'aereo ci avrebbe portati direttamente a Napoli, senza costringerci a perdere ore preziose a Milano.
Atterriamo all'aeroporto della Malpensa: sono le otto e mezza. Siamo tutti impazienti di scendere, ma bisogna aspettare che l'aereo rulli sulla pista e che si accosti alla proboscide o, meglio, al bocchettone. Terminate le operazioni, i passeggeri cominciano ad uscire, ma noi e le persone dietro di noi rimaniamo bloccati da un milanese che febbrilmente raccoglie il suo ciarpame nel contenitore sopra la poltrona. Aspettiamo pazientemente senza fiatare fino a che il signore si decida. Mi scappa un "Alla buon'ora!" masticato tra i denti. Fatti pochi passi però il milanese si ferma di botto e comincia a bestemmiare orribilmente contro la fretta che gli avremmo dato, chiamando però in causa le divinità maggiori ed un congruo numero di santi. Lo sorpassiamo senza esitare e lo abbandoniamo al proprio destino: forse ha dimenticato qualcosa, ma certo il tono raffinato alla milanese, con le "e" strette alla Arrigo Sacchi, non basta a mascherare la volgarità di un intercalare purtroppo molto diffuso in quella che pretende di essere la capitale morale d'Italia o, più modestamente da qualche tempo a questa parte, della Padania.
Ci avviamo al controllo passaporti, dove non ci degnano praticamente di uno sguardo. Passiamo e siamo veramente in Italia: il bel viaggio è proprio finito! Ritiriamo i nostri bagagli, che escono tra i primi, e passiamo senza alcun problema anche la dogana. Una volta fuori, mi avvicino alla biglietteria dell'autobus per Linate, per far convalidare i nostri biglietti, già forniti dalla United Airlines. Mi dicono che la prossima corsa è alle undici: forse ci conviene prendere l'autobus per la Stazione Centrale e di lì quello per Linate. Così facciamo, rinunciando ai biglietti prepagati ed accollandoci di nuovo la spesa del passaggio, perché speriamo di riuscire a prendere un volo per Napoli precedente a quello prenotato delle tredici.
Il pullman è a due piani e troviamo posto al piano superiore; mi sento soffocare, i finestrini non si aprono e l'aria condizionata funziona malissimo. Inoltre un tizio dietro di noi tiene una radio portatile ostinatamente accesa a gracchiare idiozie: non c'è dubbio, siamo in Italia, anzi a Milano! Inizia il percorso verso la città, lento, asfittico, su strade ed autostrade ridicolmente strette rispetto alle freeway americane. Silvana non mi ha mai visto così nervoso e polemico e mi guarda con un certo stupore.
Arriviamo alla Stazione Centrale, scendiamo ed io partecipo all'arrembaggio per recuperare i bagagli. Poi di corsa saliamo sull'autobus per Linate, che è già pronto. A causa dell'umidità dell'aria, nonostante ci sia il sole e non faccia molto caldo, sono in un bagno di sudore e mi strappo nervosamente il pullover di dosso. Su questo pullman però la ventilazione è migliore e dopo un po' sto meglio. Arriviamo a Linate alle 10,30, in tempo per prendere il volo per Napoli delle 11,10, ma abbiamo una delusione: l'impiegata del check-in ci comunica che con i nostri biglietti a tariffa ridotta non possiamo in nessun caso cambiare volo; dovremo aspettare fino alle 12,50.
Abbiamo il problema di far passare due ore. Facciamo il check-in, così ci liberiamo dei bagagli, e poi ci avviamo alla sala d'attesa delle partenza nazionali. Silvana vuole offrirmi il caffè, nonostante io le dica che forse non ne vale la pena: il caffè di Linate non è migliore di quello americano. Alla fine cedo; è una settimana che non assaggio il prezioso liquido, la mia unica droga, ma neanche la lunga astinenza può rendermi gradevole l'orribile mistura che il barista ci propina: è proprio la classica ciofeca di cui parlava Totò.
Torniamo sulle poltrone della sala d'imbarco. Per far passare un po' di tempo andiamo a turno dal giornalaio, per non lasciare incustoditi i nostri bagagli a mano. Ho un po' di sonno: dico a Silvana che sarebbe bello non vergognarsi di stendersi sulle poltrone e farsi un'oretta di sonno. Dopo un po' siamo avvicinati da due ragazze che offrono degli assaggi di un nuovo tonico a base di miele e ginseng della casa farmaceutica Giuliani. Silvana non accetta, mentre io ne prendo due fiale con relativa cannuccia. Una la consumo subito; sembra una purga, ma ho la sensazione di sentirmi meno stanco. Potenza dell'effetto placebo!
Finalmente arriva l'ora della sospirata partenza. Siamo allo stremo delle forze ed anche l'attesa nella navetta che ci deve portare all'aereo ci sembra insopportabile; il nostro aereo infatti non è attaccato ad un bocchettone, ma sta lontanissimo sulla pista. Durante il volo prendo un altro orribile caffè: devo cominciare a riabituarmi. L'aereo gira molto sulle colline dietro Napoli prima di decidersi ad atterrare. Il tempo è variabile: ci sono nuvole grosse che sembrano di ovatta, ma c'è anche molto sole. Il tempo mi interessa molto, perché fra un paio d'ore mi metterò in macchina con Carmen e partiremo per la Sardegna, via Civitavecchia. Alla fine, mentre già penso al nuovo viaggio, atterriamo.
Con la navetta, obbligatoria a Capodichino, andiamo a ritirare i bagagli. La valigia di Silvana esce quasi subito, la mia invece, che durante tutto il viaggio era sempre uscita tra le prime, oggi decide di farsi attendere, tanto che comincio a temere che si sia persa. Dico a Silvana di andarsene, di non aspettarmi, ma non sono sincero: mi dispiacerebbe rimanere solo. Lei comunque non va via, ma aspetta con me un buon quarto d'ora finché la sospirata valigia, la Samsonite verde che comprai anni fa da Macy's a New York, non fa la sua uscita trionfale. Carichiamo tutto su un carrello, col quale fendiamo la massa di folla che staziona sempre all'uscita degli arrivi a Capodichino, e finalmente siamo fuori.
Ed ecco che in mezzo alla folla si materializza come per incanto Ermanno. Silvana è subito da lui. Vorrebbero darmi un passaggio a casa, ma io rifiuto: prenderò un tassì, non voglio che perdano tanto tempo. Ci salutiamo quasi in fretta; non ci voltiamo indietro; qualcosa si è spezzato.
Il viaggio è come una vita, compiuta in termini ristretti di tempo e di spazio, ma pur sempre una vita, diversa da quella usuale e perciò comunque memorabile, piena di ricchezze e di suggestioni per altre vite a venire. Perciò è giusto che a un certo punto il viaggio finisca e si ritorni a casa; solo così, fermandoci a ricordare e a meditare, possiamo assaporare tutti i suoi doni. è per non perderne nessuno che mi è piaciuto scrivere queste note, perché il tempo non faccia appassire i ricordi e perché questi possano conservarsi per sempre come un fiore rinchiuso tra le pagine di un libro.